Provocazioni nordcoreane e spirale da scongiurare
martedì 5 settembre 2017

Per decenni, le architravi che hanno permesso alla Guerra Fredda di non diventare caldissima, con lo scoppio di un conflitto nucleare, sono stati sostanzialmente due: il Trattato di Non Proliferazione e il concetto di deterrenza. Il primo si basa sul concetto che chi ha le armi nucleari se le tiene, mentre chi non le possiede deve rinunciare a costruirle (in particolar modo gli sconfitti della Seconda guerra mondiale). Con qualche significativa eccezione (India, Pakistan, Israele e Nord Corea), questo sistema ha sostanzialmente retto, evitando una pericolosa proliferazione delle armi di distruzione di massa. Il secondo pilastro è stato quello della deterrenza. Detto in modo spiccio, se nessuna delle due superpotenze ha usato l’arma atomica è perché sapeva che la ritorsione dell’avversario avrebbe causato danni così ingenti da annullare qualsiasi guadagno. Insomma, si contava sul fatto che entrambi i giocatori fossero razionali e sapessero che da un uso degli ordigni nucleari non sarebbe uscito alcun vincitore, ma soltanto sconfitti.

Ebbene, con la Corea del Nord entrambi questi pilastri sembrano vacillare, rendendo molto più difficile leggere lo scenario strategico regionale e, ancor più, impostare politiche efficaci di contenimento di un regime così difficile da capire e da prevedere. Ed è paradossale che questo avvenga proprio mentre nel mondo prende forza la battaglia per il bando di tutte le armi nucleari... Paradossale ma non sorprendente. Da anni, ma il fenomeno si è accentuato con l’arrivo del giovane leader supremo Kim Jong-un, il regime di Pyongyang utilizza quella che è stata definita una 'diplomazia nucleare coercitiva'. In pratica, le continue provocazioni puntano a farsi riconoscere – in particolare da Washington – quale membro del 'club nucleare' a tutti gli effetti, rinunciando a un cardine della politica statunitense che punta alla completa e verificabile denuclearizzazione della Corea del Nord.

Corollario di questa strategia è anche l’avvio di trattative dirette che gli Stati Uniti hanno sempre evitato, se non nel contesto di colloqui multilaterali regionali (i colloqui a sei Paesi), e l’uso del nucleare come ricatto per ottenere quelle forniture energetiche e alimentari che impediscono il collasso di un’economia distrutta dalla rigidità della dottrina comunista e dalle folli spese militari del regime. L’amministrazione Obama aveva risposto con un approccio basato sulla 'pazienza strategica', nella speranza che le sanzioni e le pressioni dei Paesi più vicini al regime (Russia e, soprattutto, Cina) inducessero la Corea del Nord a percorrere la strada del disarmo nucleare in cambio di vantaggi economici e politici. Questa politica non sembra aver funzionato, anche per la crescente radicalità mostrata da Kim Jong-un e per l’aumentata freddezza dei suoi rapporti con Pechino (che in passato avrebbe cercato di organizzare la sua defenestrazione). I nordcoreani ora paiono puntare tutto sul rafforzamento del loro arsenale per modificare i rapporti di forza con gli Stati della regione, in modo da trattare su un piano di 'parità' con gli Stati Uniti e cercare di creare divisioni tra gli alleati dell’America nell’area (Giappone e Sud Corea fra tutti).

Una politica estremamente azzardata, tanto più se dall’altra parte vi è un presidente come Trump, che di pazienza (strategica o meno) non sembra molto dotato. Il rischio di una spirale di prove di forza è reale. E in queste condizioni anche da un incidente casuale potrebbe scatenarsi un conflitto disastroso. Perché a Pyongyang sanno che il regime non è riformabile: o rimane saldo al potere con le sue provocazioni, o collassa completamente. E ci sono pochi dubbi sul fatto che nel crollare cercherebbe di trascinare nella catastrofe più Paesi possibile. Più ancora degli ordigni nucleari, a Seul, guardano all’artiglieria convenzionale nordcoreana, capace di colpire la capitale con decine di migliaia di proiettili. Cosa che provocherebbe un massacro in brevissimo tempo.

Ma anche la Cina sa che, al di là degli stravolgimenti strategici di una guerra nella penisola coreana, il crollo del regime provocherebbe un esodo di milioni di profughi nei suoi territori. Insomma, non sembrano esserci molte alternative alle vie diplomatiche, per quanto spuntate possano apparire. E nemmeno al ribadire da parte americana la solidità dell’ombrello nucleare verso Giappone e Corea del Sud, Paesi che, in questa fase di incertezza e confusione, potrebbero guardare alla proliferazione nucleare come a una possibile arma di difesa nel lungo periodo: una tentazione da evitare assolutamente.

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