martedì 8 maggio 2018
C’erano le premesse perché il voto portasse a novità clamorose. Invece si stenta a vederne, anche se cresce Hezbollah e calano i partiti che sostengono il premier Hariri
Il premier libanese uscente, il sunnita Hariri (Ansa)

Il premier libanese uscente, il sunnita Hariri (Ansa)

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Poche tornate elettorali erano attese come quella che si è appena svolta in Libano per rinnovare le rappresentanze parlamentari. Il voto precedente si era svolto nel 2009 e poi per tre volte il Parlamento aveva prorogato se stesso, invocando ragioni di forza maggiore. Nel frattempo, era stato eletto un Presidente (Michel Aoun nel 2016) dopo una lunga vacanza istituzionale, era stata varata una nuova legge elettorale (2017) per passare dal sistema maggioritario a quello proporzionale e il Paese aveva seguito con stupore la fuga-rapimento del premier Saad Hariri in Arabia Saudita, con successivo ritorno in patria e rientro in carica come se nulla fosse stato. Per non parlare delle novità che il nuovo sistema sembrava favorire, dalla carica delle donne (86 candidate) a quella della società civile, rappresentata nelle liste elettorali da giornalisti, imprenditori ed esponenti delle libere professioni, e del possibile impatto di 800 mila giovani elettori che non avevano mai votato prima.

C’erano insomma le premesse perché il voto portasse a novità clamorose. Invece si stenta a vederne. Intanto l’affluenza alle urne è stata bassa: sotto il 50%, mentre nel 2009 era arrivata al 54%. E poi, i risultati ipotizzati dalle prime analisi (la nuova legge ha reso assai complicato lo scrutinio dei voti) annunciano cambiamenti, ma non svolte. Certo, la formazione sciita Hezbollah cresce e la coalizione che sostiene il premier sunnita Hariri cala. Sembra possibile che Hezbollah più Amal (altro partito sciita, guidato dal presidente del Parlamento Nabih Berry) più Movimento patriottico libero (il partito del presidente della Repubblica Aoun) raggiungano insieme la soglia dei 67 seggi su 128, arrivando cioè alla maggioranza. Ma sarebbe una novità più apparente che sostanziale, perché l’alleanza tra Aoun e Hezbollah è a rischio, Hariri (che guidava la formazione di maggioranza relativa) avrebbe comunque un peso politico tale da ottenergli la conferma alla guida del Governo e in ogni caso un vantaggio di uno o due seggi, nella volatile politica libanese, garantirebbe un bel nulla in fatto di stabilità e continuità di governo.

Come con le previsioni della vigilia, però, bisogna esser cauti anche con le conclusioni del dopo voto. Non c’è da stupirsi se in un Paese come il Libano, afflitto da una lunga serie di emergenze (la guerra in Siria e l’afflusso di profughi, le tensioni con Israele, la difficile situazione economica), poca gente va a votare. È appena successa la stessa cosa nelle elezioni amministrative in Tunisia, per cause simili: tanti problemi aperti e troppe speranze deluse, la sensazione che i giochi veri si facciano fuori dai riti della democrazia, il comunitarismo che replica nelle urne gli schieramenti della società.

Non è nemmeno vero, peraltro, che non sia cambiato nulla. Hezbollah, che nel 2009 aveva raccolto solo 12 seggi, voleva consolidarsi e mostrare di essere una forza politica vera, nazionale, e non solo la facciata politica di un movimento armato che per metà del mondo è un gruppo terroristico. Metà del mondo che prima o poi dovrà rassegnarsi a parlare anche con Hassan Nasrallah. E pare avercela fatta. Hariri e il suo Movimento per il Futuro volevano continuare a contare, e con i 21 seggi ottenuti (contro i 33 del 2009, ormai fuori dalla realtà) dovrebbero avercela fatta. Il che rende certo un altro Governo di larga coalizione.

Ma al di là degli obiettivi specifici, ci sono movimenti sotterranei che rendono questo voto importante. Intanto si delinea un possibile patto generazionale tra Saad Hariri e Basil Gebran, il genero del presidente Aoun. Entrambi nati nel 1970, stanno usando l’inevitabile stallo per spartirsi la scena politica del futuro. Durante la campagna elettorale hanno lavorato quasi di concerto per attaccare i vecchi leoni, dallo sciita Berri al druso Jumblatt al maronita Frangieh, appoggiati in questo dai circoli economici che apprezzano il loro liberalismo. In parallelo, una folta schiera di ex pezzi grossi delle forze armate e dei servizi segreti (Alì al-Haji, già capo della Sicurezza Interna, Shamel Roukouz, ex brigadiere generale dell’esercito, Jamel al-Sayed, ex capo della Sicurezza Generale e altri) ha preso la via del Parlamento, mettendosi così a disposizione dei nuovi feudatari.

Da non sottovalutare, infine, il successo delle Forze libanesi di Samir Geagea, il maronita che ha raddoppiato i seggi con una ferma opposizione a Hezbollah e alla politica di alleanza con la Siria e con l’Iran. Se Israele resta il vicino temuto e detestato, la stanchezza per la guerra e le tensioni da essa alimentate è sempre più evidente. In chi ha votato e, con ogni probabilità, anche in chi ha votare non è andato.

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