Spese per la difesa, per l'Italia un'incognita da 700 miliardi
Le stime dell'impegno finanziario chiesto all'Italia per l'aumento delle spese militari: si va dai 694miliardi ai 220miliardi, a seconda degli indicatori

Corre senza freni la spesa militare, sull’onda dell’impegno ratificato dai governi dei Paesi Nato a portarla entro il 2035 al 5% del rispettivo Pil nazionale. Un impegno fortemente voluto da Donald Trump e sancito una prima volta dai ministri degli Esteri già nella loro riunione del 5 giugno.
Ben più, anche se utilizzando un doppio “binario”, del 2% previsto per quest’anno e del 3,5% ipotizzato in precedenza. Sulla traduzione di questo impegno fioccano le cifre, difficili da dimostrare: l’osservatorio Milex, specializzato in queste elaborazioni, facendo un pacchetto complessivo quantifica l’impegno finanziario in 694,2 miliardi di euro, quelli necessari per arrivare dai 35,3 miliardi del 2025 (1,57% del Pil) a quota 101,8 miliardi nel 2035. Si tratta, però, di un calcolo cumulativo, che somma le cifre anno dopo anno, incluse quelle “storiche”, già programmate.
Più indicativo, allora, diventa parlare invece di circa 220 miliardi, pari alla cifra che si spenderebbe in 10 anni se invece di salire verso il 3,5% ci si limitasse a rispettare il 2%. Sempre una cifra enorme, per carità. Non è tutto: va poi considerato che, per questo 2025, Roma e il ministro (leghista) Giancarlo Giorgetti hanno ripetutamente sostenuto di essere già arrivati al 2% del Pil, rispetto all’1,57%. Questo grazie ad alcuni stratagemmi, come il conteggio delle pensioni per i militari. E, chiaramente, partire già da una base del 2% riduce l’esborso per gli anni a venire. Va considerato, infine, che al contenitore dei “costi militari” è stata data una definizione lasca, con ampie dosi di flessibilità.
Una cifra che, tuttavia, diventa politicamente più rovente alla luce della linea tenuta invece dal governo di sinistra spagnolo di Pedro Sanchez che, pur firmando come tutti l’impegno del 5%, ha continuato a ripetere per tutto ieri che centrerà gli stessi obiettivi portando i costi della difesa solo al 2,1% del Pil (oggi parte dal livello più basso di tutti, l’1,3%). Come è possibile ciò, nei giorni scorsi già al centro di uno scambio di lettere fra il premier spagnolo (che ha rivendicato di aver ottenuto una deroga) e il segretario della Nato, Rutte (che ha escluso qualsiasi esenzione?).
La risposta sta nei soliti bizantinismi della diplomazia di questi vertici, che alla fine nel comunicato finale mette sullo spesso piano l’obiettivo numerico del 3,5% e il raggiungimento degli “obiettivi di capacità” militare disposti dall’Alleanza Atlantica. Alla Nato che sostiene che servirà appunto il 3,5% l’esecutivo di Madrid replica parlando di «una scelta sovrana» (curiosamente il termine abbinato in genere alle destre) basata sul 2,1%. Un’asimmetria che «dovrebbe essere rispettata con ogni mezzo, perché è insita nei principi operativi stessi della Nato», ha rivendicato appunto Sanchez in una lettera.
Ci sono poi altri elementi che fanno pendere la bilancia potenzialmente a favore della Spagna. L’accordo è soprattutto un passaggio politico (come tale subito rivendicato da Trump stesso), ma sul piano tecnico i meccanismi non dispongono per ora un regime sanzionatorio. Sono stati cancellati (era una richiesta pure di Giorgia Meloni) gli obblighi di aumenti annuali prefissati, adesso è previsto solo un generico rapporto annuale da parte di ogni Stato e poi, soltanto nel 2029 (quindi fra quattro anni), l’annunciata “verifica”. Sarà allora che si potrà tirare una riga e ricavare un primo bilancio. La speranza di tutti i membri dell’allenza è però ovviamente che, a quella data, il quadro internazionale si sia assestato (in qualche modo) e si possa riaprire una discussione. In ogni caso, degli sforzi andranno fatti. Con il timore, di quasi tutti, che a rimetterci siano le spese sociali.
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