Siria, le voci dei cristiani di ritorno a Idlib

di Luca Geronico, inviato a Yacoubieh (Idlib)
Padre Mersob è un francescano: «Abbiamo trovato un accordo con la polizia su come suddividere il raccolto». Rim è una capo scout: «Mi dicono che ancora non posso parlare con i ragazzi per strada». La restituzione delle case è stato un primo momento di festa e normalizzazione, ma tanti giovani sognano solo di «viaggiare in Europa»
November 23, 2025
Siria, le voci dei cristiani di ritorno a Idlib
Il ritorno dei cristiani nel villaggio di Ghassanieh, in provincia di Idlib: le operazioni di reinsediamento sono però ancora difficoltose/ Custodia di Terra Santa
«Erano molto aggressivi. Per due volte mi hanno scaraventata a terra quando non volevo che costruissero un bagno nella sola stanza in cui ero costretta a vivere» racconta con un sorriso pieno di simpatiche rughe Katbe, 82 anni. Durante la guerra civile, mentre il governatorato di Idlib diventava l’”ultima ridotta” di ogni opposizione agli Assad da oltre mezzo secolo insediati a Damasco lei, come una manciata di altri cristiani troppo vecchi o malati, non si è mai mossa dal suo villaggio. «Volevano che uscissi di casa sempre con una veste lunga. Siccome sono molto anziana potevo usare un vecchio foulard, ma le donne più giovani dovevano indossarne per forza un velo nero». Dal 2014 fino al terremoto del febbraio 2023 la sua casa, tre o quattro vani di cemento armato arroccati sulle pendici di Yacoubieh, è stata sequestrata dalle milizie jihadiste: tre guerriglieri turcomanni e uighuri si sono accampati in casa sua con rispettive famiglie. «Ma i più cattivi erano quelli che parlavano arabo: mi chiamavano “nazara” e mi dicevano che dovevo diventare musulmana». Chi si opponeva, raccontano gli anziani degli unici quattro villaggi cristiani della provincia da dove è partita la “marcia su Aleppo” delle milizie dell’Hayat Tahrir al-Sham, venivano uccisi o rapiti. «Una coppia è stata sgozzata. Una ragazza uccisa perché fumava» ricorda ancora la vecchia Katbe.
Così la restituzione delle case e delle terre sequestrate dai miliziani è stato, per la minuscola comunità cristiana del governatorato di Idlib, il primo segnale di un ritorno alla normalità nella Siria di Ahmad al-Shaara. Il 15 settembre l’accordo per Knayeh, Yacoubieh e Jdaidé; solo l’11 novembre le milizie, con le loro famiglie, hanno poi liberato anche case e terreni a Ghassanieh. Così, dopo 14 anni di assenza forzata per via dell'occupazione delle milizie islamiste, alcuni cristiani riparati ad Aleppo sono tornati.
Minuscole comunità nella valle dell’Oronte, ma con radici antichissime: i cristiani qui amano definirsi i discendenti di san Paolo, perché l'apostolo deve per forza essere passato su queste colline diretto ad Antiochia. E sono tra quelli che hanno sofferto di più durante la guerra civile: il 23 giugno 2013 a Ghassanieh padre François Murad, prete diocesano che voleva fondare una comunità monastica, venne ucciso dai jihadisti. La chiesa di San Giovanni Battista a Jdaidé, trasformata in dormitorio per cinque o sei famiglie di guerriglieri uighuri ora è devastata, come pure le case di tutti i villaggi fino a pochi mesi fa requisite a forza. Ancora deserta Ghassanieh, semi distrutta, a pochissimi giorni dalla liberazione. Ma la vita comunque continua: nel 2012 a Khayeh, Yacoubieh e Jdaidé vivevano 300 cristiani, ora sono quasi 700.
Un soffio di speranza sembra essere tornato: «Abbiamo lavorato tanto con il governo e il capo della polizia. Abbiamo pure trovato un accordo su come suddividere il raccolto delle olive con i guerriglieri che ora si sono spostati altrove, in un campo per rifugiati: una parte andrà a loro, un’altra ai vecchi proprietari cristiani che sono subentrati nella gestione dei terreni a fine estate» spiega padre Khokas Mesrob. Sorride il giovane francescano mentre parla nel cortile davanti alla scuola che da pochi mesi ha ricominciato a funzionare nella sua parrocchia di Knayeh: nativo del villaggio, ha preso il posto di padre Hanna Jallouf nominato due anni fa vicario apostolico di Aleppo per i latini. Quando era parroco nel governatorato di Idlib, dopo essere stato imprigionato dalle milizie di Ahmad al-Shaara, il futuro vescovo riuscì a costruire buone relazioni con i guerriglieri sunniti a cominciare da Muhammad al-Jolani, poi divenuto il presidente Ahmad al-Shaara. «Questa è la nostra spiritualità francescana: il dialogo con le altre religioni, usare la semplicità per difendere i nostri diritti e creare un ambiante pacifico. Certo, c’è molta distruzione, c’è bisogno di tanta cura ma adesso qui c’è la scuola ed il lavoro è migliore che in città» conclude padre Khokas.
Un lavoro migliore, perché la crisi economica non è certo finita l’8 dicembre con la fuga a Mosca di Bashar al-Assad. Ed ora, disillusi dopo la festa in piazza dello scorso dicembre e rassegnati a vedere svanire le lire siriane come neve al sole, sono sempre di più quelli che dicono di rimpiangere il vecchio regime. Gli uomini dell’Hts hanno cominciato a riparare la rete elettrica nazionale, ma l’energia è aumentata di sei volte in un anno: i giacimenti di petrolio sono sotto il controllo dei curdi e il gas importato dall’Azebaigian è aumentato molto a causa della guerra in Ucraina. E ad Aleppo la corrente è garantita solo due ore al giorno, ancora meno nelle campagne. Un salario medio può raggiungere i 200 dollari: quanto basta a una famiglia media per sopravvivere una settimana con affitti di oltre 100 dollari al mese e una sanità completamente privata. Un miraggio, per molti, anche quel magro stipendio: appena arrivati al potere, gli uomini dell’Hts hanno licenziato circa un milione tra impiegati pubblici e militari fedeli ad Assad.
I soldati e i poliziotti in divisa nera che presidiano i posti di blocco all’ingresso i Aleppo e le rotonde nel centro, vengono chiamati dalla gente «quelli di Idlib». E su alcuni palazzi o sui pali della luce di Aleppo Est qualcuno ha issato la bandiera bianca di Jabhat al-Nusra (il ramo siriano di al-Qaeda) con la scritta in nero “Non c’è altro Dio al di fuori di Dio”. Nel suo ufficio della Bank of Syria di Aleppo, il direttore Amr Kayal mostra comunque un cauto ottimismo. Sunnita moderato con uno stile di vita occidentale pensa che quella iniziata l’8 dicembre 2024 sia una reale opportunità. Il processo di riforme è appena iniziato e l’economia è ancora bloccata ma, spiega, «tutte le compagnie straniere stanno già scrivendo i contratti da firmare appena le sanzioni saranno effettivamente tolte». La ricostruzione della nuova Siria sarà una opportunità per tutti: «I veri pericoli per il nuovo governo sono in primo luogo la rivalità fra le milizie che sinora hanno sostento il governo, poi la rivalità tra Hts al governo e il Daesh. Solo per terzo ostacolo vedo l’opposizione al nuovo corso delle comunità druse e alauite». Ma in realtà quello che prevale, almeno tra la gente comune, è un senso di incertezza e smarrimento: i vecchi capi dell’amministrazione locale vengono sostituiti da “sceicchi” venuti da Idlib mentre per decidere le controversie si fa ricorso alla sharia.
Rim, 28 anni, è una capo scout del gruppo Jabal el-Saidè, uno dei quartieri più poveri di Aleppo che nel 2013 ha accolto famiglie di profughi cristiani. Da poco, nel cortile della scuola dei maristi di Aleppo, si è conclusa la “cerimonia di passaggio” dei lupetti e degli scout per il nuovo anno. Ragazzi cristiani e musulmani giocano serenamente insieme, ma è un’eccezione. «Un giorno, per strada nel mio quartiere un uomo in divisa nera e con il volto coperto mi ha fermata: non puoi parlare con dei ragazzi per strada, mi ha detto. Erano dei lupetti del mio reparto» spiega Rim, 28 anni, che lavora come educatrice nell’asilo gestito dai Maristi blu. «Adesso si dice che c’è libertà di parola, ma intanto non cambia nulla. E non mi sento più sicura». Un sogno per il futuro: «Viaggiare». In Europa ovviamente.
(1.Continua)

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