venerdì 13 dicembre 2024
Il presidente cinese non raccoglierà l'invito "irrituale" di Trump a partecipare alla cerimonia dell'insediamento. Mentre continua il repulisti nel Pla anche di "fedelissimi"
Il presidente cinese Xi Jinping campeggia su uno schermo a Pechino

Il presidente cinese Xi Jinping campeggia su uno schermo a Pechino - REUTERS

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Non andrà a Washington. Gli analisti sono concordi. Il presidente cinese Xi Jinping diserterà la cerimonia di insediamento del “collega” Donald Trump, il prossimo 20 gennaio. Nonostante l’irrituale invito del presidente eletto Usa.
"Riuscite a immaginare Xi Jinping seduto all'aperto a Washington, D.C., a gennaio, ai piedi del podio, circondato dai falchi del Congresso, che guarda Donald Trump mentre pronuncia il suo discorso inaugurale?", ha ironizzato Danny Russel, vicepresidente per la sicurezza internazionale e la diplomazia presso l'Asia Society Policy Institute. Xi non consentirebbe mai, secondo l’analista, di "essere ridotto allo status di un semplice ospite che celebra il trionfo di un leader straniero, nientemeno che il presidente degli Stati Uniti".

Troppo azzardata, dunque, la mossa di Trump. E troppo irta di incognite per Xi. Che – scrive la Cnn - “sarebbe costretto a sedersi e ad ascoltare Trump senza avere alcun controllo su ciò che il nuovo presidente potrebbe dire, senza avere il diritto di replica”.
Come leggere, allora, l’invito Usa? Trattasi di un gesto dagli echi “imperiali”? O, al contrario, di una mano tesa verso quello che è, a tutti gli effetti, il vero antagonista della potenza americana? Secondo la Cnn, la rottura del protocollo, con tanto di invito al leader cinese, “è un promemoria dell'amore di Trump per la politica estera fatta attraverso grandi gesti e della sua volontà di calpestare i codici diplomatici con il suo approccio imprevedibile. L'invito a Xi mostra anche che Trump crede che la forza della sua personalità da sola possa essere un fattore decisivo nel forgiare i percorsi diplomatici”.
L'invito del presidente eletto stride, peraltro, con i segnali lanciati da Trump, prima e dopo la vittoria elettorale. Il presidente Usa ha forgiato un team di politica estera profondamente aggressivo nei confronti della Cina, “assoldando” come segretario di Stato, il senatore della Florida Marco Rubio e per consigliere per la sicurezza nazionale, Mike Waltz, entrambi “acerrimi nemici” del gigante asiatico. Non solo. Trump ha agitato “il bastone” dei dazi da imporre ai prodotti “made in China”, una strategia a metà tra la tattica negoziale o la guerra economica.

In patria il leader cinese, intanto, sembra preso da altre urgenze. E non si tratta di cosa da poco, ma nientedimeno che del rapporto – sempre agitato - con l’esercito. Che, come scrive The Diplomat, continua a subire il "metodo Xi": la purga sistematica. “Le persone accusate di corruzione tendono a sparire; i loro nomi sono censurati dalle fonti di notizie ufficiali e dai social media”. L’ultimo a cadere nella rete del repulisti è stato l’ammiraglio Miao Hua, rimosso dal suo incarico e posto sotto inchiesta per una "grave violazione della disciplina". Un pezzo da novanta, nominato dallo stesso presidente cinese. Perché Miao sedeva nella Commissione Militare Centrale, di cui Xi è presidente, la struttura di comando attraverso la quale il partito comunista controlla l’esercito.
All'interno della Commissione, Miao era responsabile delle promozioni del personale senior e, soprattutto, gestiva l’incarico di garantire la conformità ideologica. Come leggere la rimozione nell’intricato (e segreto) mondo del potere cinese? “Sospendendo Miao, Xi ha ulteriormente dimostrato la volontà di rimuovere un lealista ai massimi livelli dell'esercito per garantire la conformità con la sua agenda politica, dare l'esempio e garantire che il Pla si sviluppi nella direzione da lui desiderata”.

Pechino ha invece negato che il ministro della Difesa Dong Jun sia finito anche lui sotto inchiesta per corruzione, bollando l’indiscrezione come “pura invenzione”. A Dong, insomma, per il momento, sarebbe risparmiata la sorte dei suoi due predecessori Li Shangfu e Wei Fenghe, dichiarati colpevoli di aver intascato tangenti. L'esercito cinese ha subito una radicale “epurazione” anticorruzione: dall'anno scorso sono saltati almeno nove generali dell'Esercito popolare di liberazione e una manciata di dirigenti dell'industria della difesa. Una “partita” scivolosa per Pechino. Una frattura tra potere politico e potere militare sarebbe esiziale anche per Xi.

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