domenica 14 marzo 2021
Che fine hanno fatto i tanti Omran fotografati sulle ambulanze, tra le macerie, nelle pozzanghere? E le madri in lacrime che lasciano Aleppo? Sono anche queste le vittime non conteggiate

Omran Daqneesh oggi dovrebbe avere dieci anni, o poco più. Nessuno sa più, esattamente, dove sia finito il piccolo di 5 anni che il 17 agosto 2016 venne immortalato da uno scatto su una ambulanza ad Aleppo, lo sguardo vitreo, immobi-le, incapace di spendere altre lacrime dopo aver visto, sotto il boato di una bomba, morire la sua famiglia. Pochi, 5 anni dopo l’assedio di Aleppo, ricordano chi abbia compiuti il raid aereo, e chi sia stato colpito sotto le bombe. Poco importa. Lo sguardo innocente, e paralizzato dal terrore di Omran non domanda questo.

Nemmeno le lacrime e la rabbia di quei padri in corsa fra le macerie di Aleppo, come della Gouta e di Idlib, come sull’altro fronte – a Damasco e a Latakia – non ci domandano questo. Come le lacrime di madri che, abbandonando Aleppo, Damasco o Latakia o Homs, in questi dieci anni si sono trovate a concepire in grembo, a generare per il loro popolo, il dolore inesprimibile e lacerante della nostalgia. Omran e i suoi fratelli, Omran e le sue sorelle, Omran e i suoi padri, Omran e le sue madri – prima ancora di una verità su questo conflitto, prima ancora di una soluzione politica a questa carneficina consumata nel silenzio, allo scempio dei diritti umani nei campi profughi, nelle vendette delle milizie, nelle carceri del regime, negli assedi medievali con la popolazione taglieggiata da mafiosi signori della guerra capaci di chiedere e aprire a comando acquedotti e check point – Omran e i suoi fratelli ci chiedono di avere il coraggio di incrociare il loro sguardo.

È il dolore di una, forse ormai due generazioni, che si sono perdute, come inghiottite nella “foiba granda” di questa guerra civile siriana. Un dolore che reclama di essere ascoltato, di avere almeno la giustizia della memoria. Un dolore innocente che – al di là e al di sopra di ogni convinzione politica o religiosa di chi lo ascolta – chiede di essere curato come una ferita profonda dell’umanità. Nessuno sa se Omran ha ritrovato luce in quello sguardo, e se un sorriso possa celare il dolore di quella notte di bombe e sangue sulla sua vita, sulla sua generazione, sulla Siria. Ed è questo non sapere che inchioda la comunità internazionale e la Chiesa della Fratelli tutti, alle sue responsabilità.

E troppo poco sperare che in un campo profughi sia giunto un pacco alimentare, o in un prefabbricato qualcuno insegni a leggere e scrivere a Omran e ai suoi fratelli. È troppo poco dover sperare che qualcuno, la sera, si prenda cura di questi figli della guerra con un piatto di minestra calda in un Paese dove la disoccupazione è al 40%, una medicina è un lusso, una laurea carta straccia. Omran e i suoi fratelli, dopo 10 anni di guerra civile, ci chiedono un futuro possibile.

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