Quel che resta del villaggio libanese di Zeita - Ansa
«È vivo», ripete più volte la donna, rannicchiata sotto l’ombra striminzita dell’unico albero di fronte al cancello verde che blinda il centro di addestramento. Il figlio – di cui non si rivela il nome per questione di sicurezza – è uno dei 67 militari della Brigata Golani in servizio di leva feriti nell’attacco di domenica sera quando un ordigno di Hezbollah ha centrato il refettorio della base, situata a una quindicina di chilometri ad est di Binyamina, nel centro-nord di Israele. Insieme a due compagni, è stato portato all’ospedale Rambam di Haifa. «Ma per fortuna non era grave. Così, dopo la notte, lo hanno dimesso. Ora è dentro. Aspetto che prenda le sue cose per portarlo a casa per la convalescenza», racconta la madre, accorsa qui in piena notte dalla periferia di Tel Aviv, dove risiede. «Era stato arruolato appena sei mesi fa...», sospira, con la voce flebile e gli occhi lucidi. Sparsi per l’altopiano brullo e dorato di Wadi Ada dove si trova la struttura, ci sono altri genitori, familiari, amici. Come il ragazzo arrivato dal Neghev per assincerarsi che l’amico sia effettivamente illeso come gli hanno detto. O il fratello della recluta che si è messo in auto dal sud, appena saputa la notizia. Ora scherza con il soldato-ragazzino che alza il pollice mentre dice «safe», salvo. «Sto bene, sto bene», sorride. Dimostra meno dei suoi 19 anni, proprio come i commilitoni Omri Tamari, Yosef Hieb, Yoav Agmon e Alon Amitay, le quattro vittime del raid che lo scudo Iron Dome non è riuscito ad evitare. Secondo l’indagine delle forze armate israeliane (Tzahal), dall’acronimo), i miliziani hanno scagliato due droni di tipo “Sayyad 107” attraverso il mare. Uno è stato intercettato sulle coste di Naharia. L’altro, invece, contrariamente a quanto creduto dall’esercito, ha continuato a viaggiare, sorvolando la città a bassa quota e addentrandosi nell’altopiano orientale per oltre mezz’ora fino a colpire la base. A quell’ora, poco dopo le 19, era appena terminata la cena. Molti militari, però, erano ancora nella sala mensa. L’esplosione li ha colti di sorpresa: poiché il velivolo non è stato rilevato, non è scattato alcun allarme. Questo spiega la mattanza. «Ci siamo trovati di fronte una scena da attentato terroristico. Un’immagine da Seconda Intifada. Molti soldati erano a terra, colpiti dalle schegge, alcuni perdevano tanto sangue», racconta Uri Shaham, paramedico e coordinatore del servizio di emergenza Magen David Adom, che è arrivato alla base subito dopo la deflagrazione, insieme a oltre cinquanta colleghi, 25 ambulanze e una squadra di elicotteri per il trasporto rapido dei feriti nelle cliniche dell’area. La strage dei giovani soldati ha avuto forte impatto nell’opinione pubblica israeliana, provata da oltre un anno di guerra senza obiettivi chiari e una exit strategy. Quello di Binyamina è stato il più grave “colpo” inferto dal gruppo armato filo-Teheran a Israele dal 7 ottobre in modo deliberato. Per il massacro nel villaggio druso di Majdal Shams, a luglio, Hezbollah ha sempre parlato di errore. Stavolta, invece, ha rivendicato l’attacco. «È solo l’inizio – si legge nel comunicato –. Dimostra che siamo ancora forti». Lo stesso concetto è stato ribadito in un video di un minuto e mezzo in cui i miliziani hanno voluto mostrare il proprio arsenale «intatto». In questo intento di accreditarsi come un nemico temibile nonostante le perdite subite, rientra la pioggia di un centinaio di missili – inclusi due terra-aria – che ha martellato la regione tra Tel Aviv, Haifa e l’Alta Galilea facendo suonare in modo incessante gli allarmi per tutta la giornata. La gran parte è stata intercettata, il resto è caduto in zone disabitate. Tra gli obiettivi anche la base Stella Maris di Haifa dove, però, i razzi sono stati distrutti dal sistema di difesa aerea e non hanno causato danni. L’unico incidente di rilievo è avvenuto a Carmel, dove il conducente di un’auto è rimasto lievemente ferito da una scheggia. La «risposta dura» di Israele, preannunciata dal ministro della Difesa, Yoav Gallant e, poi, dal premier, Benjamin Netanyahu, che ieri, si sono recati, uno dopo l’altro, nella base colpita, non si è fatta attendere. Tzahal ha ampliato il raggio dei raid con l’obiettivo, secondo fonti interne, di eliminare l'unità 127 di Hezbollah, responsabile della produzione, manutenzione e funzionamento dei droni. Per la prima volta, è stato, dunque, bombardato il nord. Nel mirino, il villaggio di Aitou, a maggioranza cristiana. Al di fuori, dunque, dell’area sciita, tradizionalmente controllata dai miliziani. Gli ordigni hanno raso al suolo una palazzina affittata da famiglie di sfollati: ventuno persone morte fra le macerie.
L’esercito ha, inoltre, detto di avere ucciso a Nabatieh, nel sud, dopo ore di combattimenti, Muhammad Kamel Naim, il comandante del gruppo di élite di Hezbollah, la forza anti-carro Rawdan. Non lontano dall’area degli scontri, i militari israeliani hanno detto di avere scoperto una grande base sotterranea di Radwan, rifornita di missili e moto con cui avrebbe dovuto mettere in atto un piano di invasione della Galilea. La minaccia è concreta, ha tuonato Netanyahu a Binyamina. «Per questo continueremo a colpire Hezbollah senza pietà, anche a Beirut». Il Libano, dunque, continua a bruciare, al ritmo di oltre vittime al giorno nelle ultime due settimane, per un totale di 2.300 dall’inizio della guerra. E lista dei caduti sembra destinata ad allungarsi ancora.