
Un funerale sommario a Khan Yunis nel sud della Striscia di Gaza - Reuters
Se 94 morti vi sembra pochi… dall’alba è questo il bilancio che la Sanità di Hamas dà degli attacchi a Gaza. Dati parziali, spesso non verificabili. Come le “almeno dieci persone” che avevano trovato rifugio nella scuola Mustafa Hafez a Gaza City e che stanotte sono state uccise dalle bombe dell’esercito israeliano, secondo la Difesa civile di Gaza che (come tutto nella Striscia) è controllata da Hamas. altri 40 colpiti mentre aspettavano il cibo. Brandelli di una guerra che non vuole finire, dopo almeno cinque versioni aggiornate dei piani di pace (da ultimi i due americani dell’inviato di Donald Trump, Steve Witkoff). Vittime della fase più brutta di ogni conflitto quella che, inevitabilmente come in questo caso, volge verso la fine. Perché? Perché c’è ancora “del lavoro da finire”, per mettere in sicurezza le aree dalle quali mantenere il controllo militare, vanno distrutti gli ultimi bunker rimasti attivi per i traffici, quelli che contengono però anche i corpi o i corpi e le vite dei cinquanta ostaggi ancora nelle mani dei terroristi dal 7 ottobre di quasi due anni fa. Prigionieri di cui forse neanche Hamas ha la certezza totale di dove siano stati spostati e in che condizioni si trovino.
Se la pace non arriverà presto, per fortuna i segnali sembrano andare però verso una tregua, il disastro aumenterà geometricamente di proporzioni: lo dice la logica e lo dicono gli esperi. I nodi da sciogliere in poche ore, prima che domani arrivi la risposta ufficiale di Hamas sono tanti. Come tanti sono i dubbi di chi sarà a recapitare la risposta ai mediatori statunitensi e del Qatar. L’anima “dura e pura” dei successori dei successori al vertice militare del movimento nelle gallerie della striscia o quella delle hall degli alberghi a cinque stelle di Doha dove il vertice esule del movimento è relegato da mesi. Non c’è spazio per la mediazione tra le due posizioni, anche se entrambi sanno che è giunta l’ora di cedere. A quali condizioni? A quelle di Israele e degli americani o al compromesso che salverebbe anche a loro la faccia. Un compromesso di affidamento del potere futuro, non allo strapotere militare ma alle componenti arabe di garanzia appunto rappresentate da Egitto e Qatar? O il suicidio militare e politico della resistenza ad oltranza, contro i voleri stessi della popolazione della Striscia ormai all’85 per cento ridotta alla fame. La fame è una delle armi di questa guerra, l’ha denunciato il Papa e lo hanno denunciato in tanti. Ma è l’arma più efficace e mortifera che sta dimostrando, se mai ce ne fosse bisogno, la sua forza. Con le stragi della distribuzione del cibo, affidata dalla società di comodo israelo-americana Ghf e alle armi automatiche che hanno crepitato ad ogni accenno di sussulto, spesso involontario. Alle malattie o all’indigenza accentuata dall’assenza quasi totale di strumenti medici per contrastarne gli effetti. Spari sulla folla che un'inchiesta del quotidiano israeliano Hareetz - dopo avere raccolto le testimonianze anonime di soldati- ha rivelato essere stati ordinati ai militari dell'Idf dai loro comandanti. Mentre emerge anche il fatto che i contractor della Ghf sono a loro volta armati e usano "munizioni vere e granate stordenti".
Anche questo sta mettendo fretta a chi tratta, per la vita delle persone e non per le facce in posa alle telecamere e alla ripresa in diretta quasi perenne dalla Oval Room della Casa Bianca. Fretta a chi vuole una fetta della "torta della vittoria", con l’estensione delle terre israeliane ai Territori in parte già occupati e la loro “legalizzazione” in cambio della garanzia di sopravvivenza di un governo che (sta negli accordi) resterà saldamente nella mani del imputato, non in attesa di giudizio ma di grazia, Benjamin Netanyahu. "Bibi" per l'amico Donald.