lunedì 15 marzo 2021
Wafa Ali Mustafa,
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Ultime tra gli ultimi, doppiamente vittime: le donne siriane ha subito sulla propria pelle i lutti, lo sfregio delle violenze e l’umiliazione. Dieci anni a fianco di figli, fratelli mariti nella bufera di una guerra di altri. Raccontare queste quattro storie, segnate dal dramma, vuole però essere un omaggio alla loro forza di continuare a resistere.

Wafa Ali Mustafa

«È una mia responsabilità e quella dell'umanità intera di cambiare la situazione in Siria per un futuro migliore per le nuove generazioni. Dobbiamo costruire un Paese dove madri, padri e famiglie non scompaiano forzatamente solo per aver chiesto libertà per se stessi e per gli altri». Si esprime così la giovane Wafa Ali Mustafa, attivista dell'associazione Families for Freedom e giornalista in esilio a Berlino, che lo scorso 23 luglio è intervenuta al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. L'impegno della giovane damascena nasce a seguito dell'arresto arbitrario del padre. Ogni giorno, sui suoi profili social, Wafa aggiorna il numero di giorni da quando il padre Alì è stato arrestato per reati di opinione. Ad oggi sono 2810. Il mondo ha conosciuto Wafa grazie al suo sit in pacifico davanti all'Alta Corte regionale di Coblenza dove si è tenuto il primo processo contro due funzionari della sicurezza del governo siriano. Seduta a terra per diversi giorni insieme ad altre donne, ognuna con la foto del suo caro scomparso, ha fatto conoscere al mondo la questione delle detenzioni arbitrarie in Siria.

Amani Ballour

«Il mio impegno quotidiano in Siria si è concentrato su due questioni principali: salvare più vite umane possibile nell'ospedale sotterraneo a Ghouta, (città tristemente nota per l'attacco con armi chimiche, ndr) e lottare contro i pregiudizi di genere per cui, in quanto donna, non avrei dovuto dirigere una struttura sanitaria». Sorride raramente la dottoressa Amani Ballour, pediatra siriana, oggi in esilio, protagonista del documentario "The cave", del regista Feras Fayyad, vincitore di due Emmy Award e candidato agli Oscar 2020. I suoi occhi hanno visto bambini mutilati, sofferenti, terrorizzati dagli orrori della guerra, ma non si è mai tirata indietro. Inizialmente aveva rifiutato l'ingresso delle telecamere nell'ospedale, costruito sottoterra proprio per sfuggire ai bombardamenti, poi ha capito che documentare quanto accadeva era importante, diventando testimone dell'accanimento contro i medici e le strutture sanitarie in Siria. Nonostante un ambiente a volte culturalmente ostile al protagonismo delle donne, la dottoressa Ballour non si è fatta spaventare, dirigendo la struttura, finché non è stata costretta all'esilio.

Waad al-Kateab


«Non sarebbe stato possibile raggiungere questi risultati se non fosse per il sostegno di chi ha creduto in noi consentendo la realizzazione del film, diventando parte di esso e della nostra vita. Grazie di cuore». Quando ha cominciato a fare riprese nel campus universitario la studentessa aleppina Waad al Kateab non avrebbe mai immaginato che quelle immagini sarebbero diventate un documentario sulle violenze contro i civili siriani. La pellicola, candidata agli Oscar 2020, e vincitrice di numerosi premi internazionali, si intitola "For Sama". Si tratta di un documento potente, di denuncia e testimonianza, che la regista e attivista ha voluto dedicare alla figlia Sama, chiedendosi se fosse giusto mettere al mondo un figlio senza riuscire a garantirne l'incolumità. Waad al Kateab, che oggi vive con la famiglia a Londra, è oggi la donna siriana più nota, tanto che la rivista “Time” l'ha inserita tra le 100 persone più influenti del 2020. Con il suo impegno è diventata non solo la voce dei civili siriani, ma soprattutto delle donne che vogliono essere protagoniste del cambiamento democratico e inclusivo della Siria.

Razan Zaitouneh


«Mi chiamo Razan Zaitouneh e sono un'avvocatessa siriana di Douma, alla periferia di Damasco. Ogni giorno l'area viene bombardata e ogni giorno ci sono diversi morti. Questa morte, tuttavia, è migliore di un altro tipo di morte, che è lenta e dolorosa ed è la morte causata dall'assedio». Sono le ultime parole registrate il 4 dicembre 2013 da Razan Zaitouneh, giovane avvocatessa damascena, prima di essere rapita, il 9 dicembre dello stesso anno, presumibilmente da un gruppo terroristico, insieme ad altri tre colleghi, Wael Hammadeh (suo marito), Samira Khalil e Nazem Hammadi. Di loro non si sa più nulla. Razan era impegnata in favore dei diritti dei detenuti politici già dal 2005, quando aveva fondato la Syrian Human Rights Information Link, impegnandosi nella documentazione delle violazioni dei diritti umani. Con l'inizio del conflitto l'avvocatessa aveva fondato il Violation Documentation Center (Vdc) ed era stata anche tra i fondatori dei «Comitati di coordinamento locale». Tra i temi cari a Razan c'era anche quello delle pari opportunità e dei diritti delle donne. Intervistata nel 2011 da Amy Goodman Razan disse che dal mondo non si aspettava più nulla. Il silenzio sulla sua sorte dimostra che, purtroppo, aveva ragione.


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