giovedì 28 aprile 2022
Colpito l’ultimo viadotto a ridosso della Romania, da cui passavano gli aiuti Nato. A Tiraspol proclamato lo stato di allerta. Tanti lasciano l’enclave e cercano rifugio in Moldavia
Un ponte fatto crollare nel Donetsk

Un ponte fatto crollare nel Donetsk - Reuters

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La chiamata alle armi suona nel pomeriggio. Scontata, e al tempo stesso, imponderabile. «Sono stati sparati colpi dalla parte ucraina», è la denuncia delle autorità della Transnistria. Le deflagrazioni sarebbero state localizzate a Cobasna. Non un villaggio qualunque, ma il gigantesco deposito di armi lasciato in eredità dall’Unione Sovietica. Nessuna notizia di vittime, e neanche immagini dei colpi caduti nell’enclave. Ma per corroborare l’accusa, Tiraspol ha assicurato che «nel corso della notte diversi droni lanciati dal territorio dell’Ucraina sono stati avvistati» sul cielo transinistriano.

Inutile chiedere dei riscontri. Nella guerra psicologica i timori valgono più delle prove. E così è stata tirata fuori una vecchia analisi dell’Accademia delle Scienze della Moldavia, secondo la quale un’eventuale scoppio delle munizioni, molte delle quali già oltre la data di scadenza, avrebbe una portata analoga alle esplosioni delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Nella pancia della collina si trovano pezzi d’artiglieria, vecchie bombe aeree, tonnellate di proiettili e milioni di granate e mine. Ma non tutto il campionario di pezzi da museo ancora fatali è mai stato reso noto. Equipaggiamento che non di rado finisce in qualche inchiesta transnazionale sul traffico di armamenti.

Tanto basta però a spingere l’acceleratore sull’orlo di una crisi che al momento è più percepita che reale. La tensione è altissima anche se nessun analista militare se la sente di sostenere che vi siano i sintomi di un conflitto in grado di tracimare davvero fin dentro la repubblica separatista in territorio moldavo, e con i confini esterni interamente esposti sull’Ucraina. Da Kiev a Mosca come sempre le parole volano. Aleksey Arestovich, consigliere del presidente Volodymyr Zelensky, ha affermato che «l’esercito ucraino potrebbe prendere la Transnistria, se necessario». In altre parole, se arrivasse una richiesta dalla Modavia. Il portavoce del Cremlino non si tira indietro. «Parole piuttosto provocatorie – le definisce Dimitrij Peskov –. Questo è tutto ciò che posso dire».

Dopo due giorni di misteriosi attacchi, prima alla sede dei servizi segreti e poi alle antenne che rilanciano le emittenti radiofoniche russe, ieri non si era inizialmente avuta notizia di altri sabotaggi. Alla popolazione, però, le ossessive accuse formulate dalla tv di stato sembrano da non prendere sottogamba. «Non so se è tutto vero quello che dicono – osserva un operaio in coda da due ore al posto di frontiera vicino Grigoriopol – ma non possiamo più stare qui». Lo sostiene mentre mostra ai militari transnistriani e a quelli russi un permesso che gli consente di portare la famiglia in Moldavia. Molti qui hanno il passaporto di Chisinau, tanti sono di origine ucraina e hanno accolto fino a 25mila profughi dalla guerra. Ora, invece, se ne vogliono andare. Da ieri i confini sono pressoché sigillati.

Serve una buona ragione per entrare, e una migliore per uscire. La guerra combattuta a colpi di cattivi presagi ha bisogno di mostrare il caos che potrebbe crearsi se davvero il conflitto arrivasse fino a qui. Mentre la “forza di pace” russa dispone i blocchi di cemento per costringere gli automobilisti a fermarsi, la Transnistria lentamente viene trasformata in un fortino dove far dilagare la paura dell’invasione, accusando Kiev di voler fare a Tiraspol quel che Mosca sta facendo in Ucraina. Molti, oramai, aspettano il momento in cui la Transnistria chiederà di essere riconosciuta ufficialmente da Mosca e perciò, come nelle repubbliche autoproclamate del Donbass, di essere assistita dalla Russia, la quale sul posto ha già fino a tremila uomini: metà nei ranghi dei “pacificatori”, e metà inviati dalla 14esima armata incaricata di tenere al sicuro i giganteschi depositi di armi da guerra. Per due settimane, è stata sospesa la parata militare del 9 maggio, con cui si celebrano le vittorie sovietiche sui nazisti.

Il martellamento mediatico funziona. Poco dopo le 10 del mattino i canali ufficiali hanno trasmesso il fermo immagine da un posto di confine sull’Ucraina. L’intero checkpoint risulta trasformato in una trincea. Un muro di sacchi di sabbia e a poca distanza una serie di blocchi di cemento. «L’Ucraina ha chiuso i confini unilateralmente», viene spiegato. La sensazione, perciò, è quella di sentirsi in trappola. Non bastasse, è stato proclamato lo stato d’allerta antiterrorismo per celebrata ogni anno per ringraziare l’Unione Sovietica di aver ricacciato i nazisti, scuole e università restano chiuse. Il coprifuoco non è stato dichiarato. Ma è come se ci fosse. È previsto l’obbligo di identificare chiunque sia sorpreso a circolare dopo il tramonto, mentre durante il giorno l’identificazione è facoltativa. A Chisinau invitano alla calma. Con la presidente Maia Sandu che chiede alle sparute forze di sicurezza di mantenere i nervi saldi e non cadere in eventuali provocazioni. Come quelle dell’ambasciata di Mosca che non perde occasione per lamentarsi delle sporadiche quanto pacifiche proteste antirusse di cittadini moldavi davanti alla sede diplomatica, seconda per imponenza solo ai mastodontici edifici governativi del viale Stefan Cel Mare.

La guerra, più di prima, va adesso osservata su una mappa più ampia. L’attacco alla sede dei servizi segreti della Transnistria, che trattandosi di una enclave separatista filorussa di forte nostalgia sovietica non potevano non chiamarsi “Kgb”, sono un altro passo verso il baratro. Nei giorni scorsi, sono state attaccate cinque vie ferroviarie in tutta l’Ucraina, e da lunedì per due volte è stato danneggiato il ponte sull’estuario del fiume Dnestr, da cui transitano mezzi gommati e treni. Giorni prima era stato distrutto un cavalcavia a Sviatohirsk, nel Donetsk, sbarrando la strada a migliaia di profughi e agli aiuti umanitari. L’infrastruttura colpita ieri a sud di Odessa è a pochi chilometri dalla Transnistria. Ci passavano le armi per Kiev spedite dalla Nato attraverso la Romania. E anche i prodotti agricoli che l’Ucraina sperava di esportare inviandole sul porto romeno di Costanza. Nelle stesse ore, da Odessa sono partiti attacchi che avrebbero distrutto un posto di comando marittimo stabilito dai russi su un isolotto occupato proprio davanti alle coste ucraine. Da lì è facile raggiungere la pianura che conduce rapidamente in Transnistria.

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