mercoledì 20 ottobre 2021
Sono passati 80 anni dallo sterminio di gran parte della popolazione ebraica nella città ucraina. «Sono arrivati con le taniche di benzina. I miei nonni tra i pochi che sono riusciti a salvarsi»
Ottobre 1941, gli ebrei di Odessa in coda per la registrazione

Ottobre 1941, gli ebrei di Odessa in coda per la registrazione - Per gentile concessione del Museo dell’Olocausto di Odessa

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E' una pagina nera della storia europea del Novecento, una di quelle pressoché dimenticate, mai veramente conosciute. Sono passati ottant’anni esatti da uno dei più feroci episodi dell’Olocausto, e per l’anniversario, nella città ucraina di Odessa, c’è chi con ostinazione non rinuncia a raccontare. È la storia collettiva a venire rievocata, ma anche quella individuale, di due vite risparmiate proprio mentre altre decine di migliaia andavano perdute: la storia di Galis Manya, ragazzina ebrea di 15 anni, e di Kris Gersh, anche lui ebreo, di tre anni più grande di lei. Il loro nipote Pavel Kozlenko, oggi direttore del Museo dell’Olocausto della città, racconta del destino che li ha uniti, e intanto accompagna i visitatori sala dopo sala.

Galis Manya e Kris Gersh, sfuggiti ai rastrellamenti di Odessa e uniti dal destino

Galis Manya e Kris Gersh, sfuggiti ai rastrellamenti di Odessa e uniti dal destino - Per gentile concessione del Museo dell’Olocausto di Odessa

Mentre fa loro da guida, cerca di incrociare lo sguardo di ciascuno, per assicurarsi che abbiano davvero compreso la portata della tragedia. «La gente non sa granché di questo capitolo della Seconda Guerra mondiale», ci spiega il direttore. «Qui però viene in visita gente da tutto il mondo e qui invitiamo gli studenti locali, soprattutto nel mese di ottobre per l’anniversario dei massacri».

Il riferimento è alla data del 23 ottobre 1941, ottant’anni esatti questa settimana, e alla terribile strage messa in atto dagli occupanti rumeni insieme ai nazisti tedeschi, dopo lo scoppio di una bomba che aveva ucciso 130 dei loro soldati: «Quel giorno in ogni strada di Odessa si potevano incontrare morti impiccati. A venti minuti d’auto da qui sorgevano nove depositi di armi: al loro interno l’esercito rumeno aveva concentrato 25mila ebrei, donne, vecchi e bambini, oltre a 3mila prigionieri di guerra», racconta, scandendo ogni parola. «I soldati sono arrivati con taniche di carburante, l’hanno versato attorno ai depositi, e hanno appiccato il fuoco. Testimoni hanno raccontato che l’odore dei corpi bruciati era talmente intenso da non permettere di rimanere nelle vicinanze. Quella è stata la Babij Jar di Odessa», dice, riferendosi al più noto massacro nazista avvenuto qualche settimana prima nella capitale Kiev. Nei mesi successivi altre stragi sono seguite, nella vicina Dalnik e lungo la cosiddetta Strada della Morte: «La nostra regione non aveva camere a gas come Auschwitz, così la gente veniva forzata a camminare anche 200 chilometri al gelo, verso il campo di Bogdanovka. Si moriva di fame, di malattie o uccisi a colpi di arma da fuoco. Così sono scomparsi altri 56.000 ebrei, da dicembre fino ad aprile».

1941: colonne di ebrei diretti ai depositi di polveri vicino a Odessa

1941: colonne di ebrei diretti ai depositi di polveri vicino a Odessa - Per gentile concessione del Museo dell’Olocausto di Odessa

È in quella primavera del 1942 che troviamo i due giovanissimi Galis e Kris rinchiusi in un ghetto fuori città. «Allora i miei nonni non si conoscevano. A distanza di qualche giorno l’una dall’altro, riuscirono a sfuggire ai rastrellamenti dei soldati rumeni e delle SS tedesche, messi in salvo e tenuti nascosti dentro una chiesa da due preti ortodossi», racconta il direttore.
Gli chiediamo della ricostituita comunità ebraica e se oggi abbia trovato pace: «Si assiste a qualche caso di antisemitismo, ma non in percentuali significative. Gli ucraini sono in generale rispettosi nei confronti degli ebrei», risponde. «Certo resta complessa la questione del collaborazionismo della polizia ucraina con i nazisti. La società oggi non è pronta ad ammettere questo tipo di responsabilità. Occorre il lavoro degli storici, a loro deve essere affidata questa materia, ed è un bene che i politici non si siano addentrati troppo in queste vicende».

Nel 1939 un terzo della popolazione di Odessa, circa 200mila persone, era costituito da ebrei. Alla fine del conflitto, tra esodi e massacri, nell’area urbana «ne rimanevano solo 600», conclude il direttore. «Per questo siamo qui, per mostrare alle nuove generazioni in che modo la comunità ebraica, ottant’anni fa, qui, sia stata quasi del tutto cancellata». È rifiorita grazie a persone come Galis e Kris, ai tanti che sono rimasti o rientrati in città. E anche la memoria di chi non c’è più torna a rivivere non appena Pavel Kozlenko incomincia a raccontare.

Pavel Kozlenko,  direttore del Museo dell’Olocausto di Odessa

Pavel Kozlenko, direttore del Museo dell’Olocausto di Odessa - Per gentile concessione del Museo dell’Olocausto di Odessa



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