martedì 11 dicembre 2018
Alta natalità, integrazione e forte sviluppo: il Paese che da 70 anni vive in una situazione di conflitto cresce e va in controtendenza. Il demografo Della Pergola: il progetto iniziale funziona
Una veduta di Gerusalemme (Ansa)

Una veduta di Gerusalemme (Ansa)

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Il conflitto con i vicini regionali, le spaccature interne, le difficoltà politiche, l’antisemitismo (spesso vestito di antisionismo). Eppure Israele cresce. E cresce in controtendenza rispetto agli altri Paesi sviluppati, riuscendo a combinare indicatori impensabili nell’Europa più avanzata, a cominciare da binomio (quasi) impossibile tra alta natalità e sviluppo.

Professor Della Pergola, Israele è stabile al 16esimo posto nell’Indice di sviluppo umano compilato dall’Onu (ISU); l’Italia è al 26esimo. Israele ha il più alto tasso di fecondità tra i Paesi sviluppati: il 3 contro l’1,3 dell’Italia (e in tutta Europa il dato non sale sopra il 2). A cos’è dovuto?

Aggiungerei anche un altro elemento: la forte partecipazione attiva della donna alla vita economica e politica del Paese. Gli indicatori, se comparati, fotografano sicuramente un paradosso tutto israeliano. Un paradosso di successo. Ma c’è una precisa linea logica che sottende a tutto questo, e che parte da lontano. È il grande progetto da cui è nato questo Stato: un progetto di riscatto umano da una condizione storica che ben conosciamo. Questa tensione ideologica, inquadrata in una programmazione molto razionale, ha dato luogo a uno sviluppo eccezionale.

Le premesse demografiche, economiche e ideologiche di Israele nel 1948 non erano certo incoraggianti. Come sono state superate?

Far convergere milioni di persone che, sì, avevano in co- mune un nucleo di valori, al centro dei quali i testi sacri, ma anche enormi differenze culturali, è stato uno sforzo immane. Questo è l’aspetto più interessante della cultura di Israele. La spiegazione più immediata sta nell’abi- tudine alla convivenza che la società israeliana ha dovuto acquisire in fretta.

E la natalità?

Il dato demografico rientra totalmente nel progetto iniziale, perché è il prodotto di un sistema valoriale che considera la famiglia nucleare tradizionale come l’elemento portante della società. La famiglia è un valore che qui si è corroso un po’ meno rispetto ad altre società occidentali in cui vediamo gravi fenomeni di invecchiamento e impoverimento demografico.

Tutto questo sull’onda di quella spinta progettuale iniziale?

Sì: è ancora molto forte la vitalità di quell’idea originale. Se guardiamo le ultime indagini sociali su Israele, la cosa più sorprendente è l’ottimismo delle persone, la dichiarata soddisfazione nei confronti della vita, la speranza nel futuro. È difficile da spiegare razionalmente, ma è qualcosa che riflette perfettamente il fatto di credere nei valori fonnegato damentali storici e religiosi.

Progetto, convivenza, famiglia, ottimismo: parole decisamente fuori moda in Italia e in Europa.

Purtroppo rilevo in molti Paesi occidentali, e l’Italia è quello che mi è più vicino, una grande apatia, una sostanziale mancanza di volontà di fare e di capire quello che si vuole fare. È una forte crisi identitaria. In Israele questo non c’è. Semmai il contrario.

Però dentro la società israeliana le tensioni sono forti. E se una volta gli israeliani si differenziavano soprattutto tra “religiosi” e “non religiosi”, adesso la spaccatura sembra essere più politica: “destra”, “sinistra”.

Va chiarita una cosa: l’asse identitario religioso è sempre fondamentale, anche per chi religioso non è. Detto questo, la società israeliana è un mosaico composto di posizioni, spesso anche agli estremi: dagli Haredím (ultraortodossi) ai secolari. Ora, che succede con la politica? Succede che nella democrazia israeliana l’elemento religioso diventa un elemento di partito, e poi si consolidano alleanze in cui l’interesse di partito, che è sempre un interesse laico, materialista, si sovrappone a richieste di tipo culturale o spirituale. Questo finisce per condizionare la vita del Paese.

Per esempio, nei mesi scorsi si è sfiorata una crisi di governo sul problema della leva per gli ortodossi. E si sono registrate polemiche sul tema dello spazio di preghiere per le donne al Muro Occidentale, dalle correnti dell’ebraismo più ortodosso.

Perlappunto. La legge elettorale crea una grande frammentazione. In un tale Parlamento si devono creare delle coalizioni, e in queste coalizioni anche il partito più piccolo ha il potere di ricattare il partito più grande, di imporgli concessioni su temi specifici. È una situazione che considero malsana, e sarebbe auspicabile una riforma elettorale in senso meno poporzionale.

Ci sono state molte polemiche anche sulla questione di 50mila immigrati, soprattutto africani, entrati illegalmente in Israele. Il Paese ha bisogno di queste persone o no?

Ritengo che l’immigrazione sia un fatto positivo per l’economia di un Paese. Ma a determinate condizioni: il limite è quello dell’integrazione culturale degli immigrati. Va considerata anche la loro volontà di partecipare a questa società, adottando determinate norme di lingua, cultura e comportamento.

Poi però c’è la popolazione palestinese. E lì il discorso cambia.

Cambia perché non c’è un progetto simmetrico a cui lavorare. Lo dico con grande rammarico: non riesco più a vedere possibilità di dialogo. Ci sono due Palestine, Ramallah e Gaza, in guerra civile una con l’altra. Trattare diventa quasi impossibile.

E i ritorni dalla diaspora? L’antisemitismo è in crescita, soprattutto in Europa. Questo continua a essere un fattore sensibile?

Il dato più alto lo si è registrato nel 2015-2016. Poi nel 2017 e 2018 c’è stato un forte calo. Questo significa che anche se i fattori scatenanti delle migrazioni dall’Europa sono ancora lì, e per certi versi sono anche peggiorati, la diaspora è forte e solida. Ieri è stato pubblicato a Bruxelles uno studio dell’Agenzia per i Diritti Fondamentali – (come riportato nel pezzo a fondo pagina) –: il pubblico ebraico ha una sensazione di forte aumento del-l’ostilità, non tanto del pregiudizio generico, che è stabile, ma di quella parte dell’ostilità percepita come “molto forte”. Credo ci sia un’erosione del discorso civile nel sistema politico dei Paesi europei e anche negli Stati Uniti: determinati modi di esprimersi, fare e di agire sono senza precedenti. Si tratta di forme deplorevoli che in genere sono dirette verso altri gruppi come immigrati, musulmani, ma che alla fine colpiscono anche gli ebrei, percepiti sempre come “altro”. Tutto questo crea premesse tragiche. Un segnale che tutti dovremmo imparare a leggere.

Chi è Sergio Della Pergola

Specialista riconosciuto a livello internazionale sulla popolazione in Israele e nella diaspora, autore di libri e articoli, Sergio Della Pergola, nato a Trieste nel 1942, cresciuto a Milano, dal 1966 vive a Gerusalemme. È professore emerito di demografia ed ex-Direttore dell’Istituto Avraham Harman di Studi Ebraici Contemporanei all’Università Ebraica di Gerusalemme.

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