giovedì 10 agosto 2023
Il presidente Lasso dichiara lo stato di emergenza. Rivendicazione, sei arresti. Il voto del 20 agosto non sarà rinviato. Il centrista Fernando Villavicencio Valencia, lottava contro i clan
Fernando Villavicencio Valencia aveva 59 anni

Fernando Villavicencio Valencia aveva 59 anni - Ansa

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«Verranno ad ammazzarmi». Così aveva detto Fernando Villavicencio il 9 agosto nell’intervista ad Ecuavisa. Meno di 24 ore dopo, la tarda sera di mercoledì (l’alba giovedì in Italia), il candidato del “Movimento construye”, considerato vicino all’attuale presidente Guillermo Lasso, è stato massacrato al termine di un comizio all’uscita dalla scuola Anderson di Quito con oltre quaranta proiettili.

Secondo le autorità, il killer è morto nello scontro a fuoco con la scorta. Già prima della pandemia, gli esperti avevano dato l’allarme sull’aumento della criminalità nel Paese. La cartina di tornasole, come al solito, erano le carceri dove, anno dopo anno, aumentavano le stragi fra detenuti affiliati a bande nemiche, puntualmente ignorate. Poi hanno iniziato ad essere assassinati magistrati, giornalisti e, infine, i politici. Il 24 luglio, la violenza ha colpito Augustín Intriaga, sindaco della città portuale di Manta. Una settimana prima era toccato a Ríder Sánchez, che correva come deputato.

L’assassinio di un aspirante presidente – seppure in quinta o sesta posizione nei sondaggi  – alla vigilia del voto del 20 agosto, rappresenta, però, un salto di qualità. Uno scenario dalle tinte – seppur fortunatamente ancora sbiadite – messicane. Termine quest’ultimo non scelto a caso. È stata proprio la penetrazione dei due principali cartelli messicani della droga – Sinaloa e Jalisco nueva generación – a far scoprire a una nazione relativamente tranquilla, almeno per gli standard della regione, una ferocia inedita. In quest’ottica va inquadrato l’omicidio plateale di Villavicencio. Quest’ultimo aveva centrato la campagna sulla lotta alla corruzione. Puro marketing, lo accusavano i critici che gli rinfacciavano il legame con Lasso, banchiere conservatore coinvolto in un presunto scandalo di tangenti. Proprio per non venire sottoposto all’impeachment da parte del Parlamento, lo scorso maggio, il presidente aveva sciolto l’Assemblea e convocato nuove elezioni. In ogni caso, Villavicencio si era più volte scagliato contro “Los Choneros”, braccio armato nel Paese dell’organizzazione messicana di Sinaloa e aveva denunciato minacce da parte loro.

La zona dell'attacco nella capitale Quito

La zona dell'attacco nella capitale Quito - Reuters

Paradossalmente, però, a rivendicare il delitto, in un video su Twitter, sono stati “Los Lobos”, rivali di “Los Choneros” e “soldati” del cartello di Jalisco. Nel filmato, i narcos sostengono che uccideranno anche un altro candidato, il controverso Jon Topic, multimilionario e sostenitore di pugno di ferro nonché mezzi discutibili per combattere la delinquenza. In un quadro così opaco è difficile comprendere davvero le dinamiche nascoste dietro l’omicidio di Villavicencio per cui, al momento, sono stati arrestati sei sospettati. Con buona probabilità sono stati i narcos, ma quale gruppo? Con quale finalità? «È un crimine politico, per colpire la democrazia», ha tuonato il presidente che, proprio per questo, ha garantito il regolare svolgimento delle elezioni e ha dichiarato lo stato di emergenza per due mesi. Il mondo politico si è unito nel cordoglio, a partire dalla favorita, Luisa González, delfina dell’ex leader Rafael Correa: per tre giorni ci sarà lutto nazionale.

Al di là delle dichiarazioni di circostanza, resta da sciogliere il nodo di fondo. Il porto ecuadoriano di Guayaquil – con le sue 300mila navi container in partenza al mese – è diventata la principale porta verso l’Europa e gli Usa della cocaina prodotta in Colombia, Perù e Bolivia. La via terrestre è troppo “battuta”, così i narcos si sono orientati per la rotta pacifica. Per l’Ecuador, inoltre, passa anche l’altra direttrice: quella che attraverso la regione di Sucumbíos e l’Amazzonia conduce al Brasile e ai suoi ambiti scali. Per i boss messicani il controllo di queste due “vie d’uscita” della coca verso i luoghi di consumo e di guadagno è vitale per il business. Da qui la progressiva infiltrazione attraverso la cooptazione di pezzetti di istituzioni, sempre più grandi. E il crescente controllo del territorio, in particolare dei quartieri poveri, con l’imposizione di estorsioni agli ambulanti e l’eliminazione dei “delinquenti” non allineati.

Non si tratta più di “plata o plomo” (soldi o pallottole), il vecchio motto dei signori della droga, bensì di entrambi, «plata y plomo».

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