mercoledì 19 giugno 2013
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«Sono in prigione dal 16 giugno del 2009. Gesù mi ha sempre concesso una buona salute. Ma dal punto di vista psicologico a volte sto male: succede quando mi sento sola. Mi manca la mia famiglia. Allora mi indebolisco». Asia Bibi non parla quasi con nessuno. Nel carcere di Sheikhupura – dove è rimasta per tutto questo tempo, prima del trasferimento a Multan – ha sempre avuto contatti limitatissimi, anche se una delle guardie femminili le ha fatto un “dono”: le ha insegnato a leggere. Da un po’ di tempo riesce a sfogliare e comprendere da sola la Bibbia. Fra le poche persone che l’hanno visitata costantemente a Sheikhupura – oltre ai familiari – ci sono anche i rappresentanti di una piccola Ong di ispirazione cristiana, la “Renaissance Education Foundation”, dedicata al campo dell’istruzione: sono loro ad averci riferito le parole di Asia Bibi raccolte durante uno degli incontri, poco tempo fa. La voce di questa donna – madre di cinque figli — è la tenace testimonianza di fede di una minoranza coraggiosa, minacciata dall’intolleranza e dalla rabbia di chi ha abbracciato il fanatismo. In cella di isolamento da anni, la donna ripensava i suoi cari, lamentando una dolorosa lontananza: «Possono venire a farmi visita una volta al mese. Io qui ho una loro fotografia». Le condizioni della vita in carcere sono dure. Molto dure. L’isolamento venne imposto per motivi di sicurezza, così come la telecamera che la osservava giorno e notte e la particolare attenzione relativa al cibo: «Mi cucino da sola». Alla detenuta, infatti, le autorità penitenziarie hanno sempre fornito gli ingredienti crudi, per evitare qualsiasi rischio di avvelenamento. «Non ho paura della morte», dice. Ma il timore riguarda l’incolumità dei suoi cari, della sua famiglia. La solitudine pesa gravemente sul suo stato d’animo, nonostante la forza che ha dimostrato in questi ultimi anni: una forza inversamente proporzionale alla sua piccola e apparentemente fragile figura femminile. Le giornate a Sheikhupura sono sempre state tutte uguali: «Mi sveglio presto la mattina, dico le mie preghiere, leggo la Bibbia e poi mi preparo la colazione». «La maggior parte del tempo – ha aggiunto – lo trascorro pregando. Mi rende più forte». Un’attesa infinita. Dell’iter giudiziario del suo caso non sa praticamente nulla: «La prima udienza del primo processo è stata il 16 giugno 2009 e io sono stata condannata a morte. Ora, grazie alle pressioni internazionali sul caso, sono viva. Altrimenti potrei già essere stata impiccata». Ma dell’appello non ha notizie. Del resto – ha sempre ripetuto – la difesa legale è costosa e i mezzi sono scarsi. La colonna su cui Asia Bibi si appoggia è la sua fede. «Sono una donna innocente», ha ribadito ai membri della Ong: lo ha sottolineato più volte, vuole ricordarcelo. «Ho sacrificato la mia vita per la mia religione, per seguire Gesù Cristo. Mi hanno detto che sono diventata una sorta di simbolo di fede per le giovani generazioni», ha detto alla “Renaissance Education Foundation”. «Credo in Dio e nel suo grande amore e sono orgogliosa di sacrificarmi». Asia Bibi dice di essere disposta a «passare la sua vita in prigione, come cristiana» piuttosto che «convertirsi a un’altra religione in cambio della libertà«. È la stessa ferrea risposta che offrì al giudice che tempo fa le propose la scarcerazione, se avesse abbracciato l’islam. Lo raccontò lei stessa in una lettera che pubblicò <+corsivo>Avvenire<+tondo> lo scorso dicembre: «Sono stata condannata perché cristiana – gli ho detto –. Credo in Dio e nel suo grande amore. Se lei mi ha condannata a morte perché amo Dio, sarò orgogliosa di sacrificare la mia vita per Lui», disse allora. La forza di Asia Bibi non si limita alla resistenza. Va oltre. Nei confronti di coloro che l’hanno gettata nel pozzo carcerario, in questa angosciante storia di ingiustizia, non ha parole di astio. «Gesù Cristo nostro Signore ci ha dato molti esempi di perdono», ha detto, dunque «secondo l’insegnamento cristiano io li ho perdonati».
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