sabato 20 febbraio 2021
Sempre meno lavoratori a giornata sul ponte dell'Howrah. L'allarme Caritas: dopo il lockdown è crollata l'economia informale. Sono 140 milioni gli sfollati di ritorno nei villaggi
Un gruppo di lavoratori indiani in attesa di lasciare la stazione dei bus di Calcutta

Un gruppo di lavoratori indiani in attesa di lasciare la stazione dei bus di Calcutta - Gianluca Rubagotti

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Si chiamano Ajar, Hari, Chandra e Naresh. Ma il nome, purtroppo, rischia di scomparire in fredde statistiche. Come le loro esistenze. Le enormi baraccopoli di Calcutta da alcuni mesi sembrano più vuote e il ponte sul fiume Howrah, alla mattina, è meno affollato di operai a giornata. Se si vuole capire quanto il Covid abbia “picchiato duro” nel subcontinente indiano, più che alle statistiche sanitarie bisogna guardare le sponde semideserte dell’Howrah. Infatti i quasi 11 milioni di contagiati e gli oltre 154mila morti fanno dell’India il secondo stato più colpito al mondo, ma con percentuali che si stemperano nel totale di un miliardo e 300 milioni di abitanti. Cifre ritenute abbastanza attendibili, anche se le capacità diagnostiche, specialmente fuori dalle metropoli, sono assolutamente limitate data la mancanza di una sanità pubblica.

A colpire duro, più dell’assenza di terapie intensive, e in attesa che la campagna vaccinale iniziata a gennaio riesca con sforzo titanico a raggiungere i più remoti villaggi, è quel senso di vuoto che si respira dove, fino a pochi mesi fa, era un pullulare di “braccianti di giornata” assoldati da ambigui mediatori. È la parabola che porta dall’indigenza al baratro e che corre lungo la strada che porta da Calcutta ai villaggi dell’India settentrionale nel vicino Stato del Bihar. Quando, il 23 marzo, il premier Narendra Modi decretò un lockdown totale – peraltro impossibile da rispettare nella società indiana – in poche settimane milioni di “braccianti metropolitani” si trovarono senza quelle 200 rupie (circa 2 euro) indispensabili per sopravvivere nella grande Calcutta. E spedire a casa tutto il resto: «Si sono trasformati, in pochi giorni, da “bread winner” ad affamati», spiega Beppe Pedron, responsabile di Caritas Italiana per l’Asia meridionale. Cinquecento chilometri e più, dal Bengala occidentale al Bihar, percorsi la scorsa primavera da giovani uomini stipati su bus sgangherati presi d’assalto, su vagoni di treni strabordanti, in bicicletta o semplicemente a piedi per lasciare una baraccopoli divenuta, nel giro di poche settimane, terra ostile. Da marzo in poi migliaia e migliaia di lavoratori, legati in gran parte all’industria tecnologica o delle comunicazioni, sono tornati a fare i pastori di pecore o i contadi- ni. Difficile avere cifre esatte della migrazione interna alla penisola indiana. Un “viaggio di ritorno” che ha diffuso il contagio e ha riportato altre bocche da sfamare nei villaggi d’origine.

Il lockdown ha causato la più grande migrazione interna che l’India ricordi in tempi recenti: secondo uno studio dell’Indian Journal of Labour Economics, «nel 2020 in base al reddito, sono stati 600 milioni i migranti interni dell’India, di cui 200 milioni tra stato e stato e, si stima, 140 milioni legati a necessità lavorative», spiega sempre Pedron. Una lotta per il pane quotidiano che già – prima della pandemia – esponeva questo popolo di “bread winner” allo sfruttamento sessuale se non addirittura al traffico di organi. Quale sia il costo sociale di questa “inversione a U” nella povertà lo testimonia il tasso di suicidi, in forte aumento, come l’aumento delle ma-lattie psichiatriche. Un frutto amaro del crollo di ogni possibilità di crescita economica, mentre a causa del lockdown grandi quantità di raccolti agricoli e di cibo semi-lavorato sono andati perduti: una tragedia per un Paese già agli ultimi posti (102esimo su 117) nell’Indice globale della fame. Così il “Mahatma Gandhi national rural employment” che doveva essere un piano governativo in no per assicurare 100 giorni di lavoro garantito ai disoccupati agricoli, «nell’emergenza si è trasformata in un piano assistenziale allo stato puro», aggiunge sempre Pedron di Caritas Italiana. Un calcio alle politiche di sviluppo programmate, ma almeno un aiuto concreto per sopravvivere.

Anche perché l’esodo di massa, gli assembramenti, la chiusura temporanea delle frontiere interne agli stati, la quarantena di due settimane imposta a chi rientrava nella terra d’origine ha costretto il governo tra primavera ed estate ad allestire 38mila campi profughi: scuole, caserme, strutture pubbliche che hanno dato riparo a chi compiva l’esodo garantendo a circa 16 milioni di persone due pasti al giorno.

Per tornare a casa e sprofondare nella fame.

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