Campi profughi Rohingya allagati in Bangladesh (Ansa)
Piogge devastanti stanno portando a livelli intollerabili le condizioni di centinaia di migliaia di profughi Rohingya che la persecuzione ha spinto dal Myanmar, Paese di cui sono originari, al di là del confine, in Bangladesh. Sulle colline che a perdita d’occhio vedono sorgere tende dove fino a pochi mesi fa si trovavano foreste, l’acqua e il fango sono ovunque, rendendo ancora più precaria la vita degli abitanti come pure dei soccorritori. Smottamenti e allagamenti, che rischiano di trascinare con loro almeno 30mila persone, sono un rischio costante, come lo restano d’altronde le malattie che minacciano soprattutto anziani e bambini.
Le colline si sfaldano e portano a valle rifugi precari e speranze – a volte le vite – dei Rohingya, mentre tutto attorno fatica a restare coerente e efficace il sostegno alla loro situazione critica davanti a nuove sfide. Che peraltro non sono più tanto quelle delle prime necessità, ma quelle alimentate dalla peggiore natura umana sotto forma di brutalità, tratta e schiavitù. Prioritario è anche garantire parti non traumatici e salvaguardare le donne che, a nove mesi dalla fuga e dalle violenze sessuali da parte dei soldati e dei miliziani birmani che l’hanno accompagnata, stanno dando alla luce migliaia di bambini.
L’ultimo aggiornamento sulla risposta alla crisi umanitaria arriva dall’Organizzazione mondiale delle migrazioni (Oim) e ricorda che i 702mila arrivi presso Cox’s Bazar dall’avvio dell’ultima crisi il 25 agosto 2017 hanno portato complessivamente a 915mila persone la popolazione di etnia Rohingya nei campi e complessivamente a 1,3 milioni la popolazione considerata «in stato di bisogno» nell’area, calcolo che include gruppi tribali a loro volta tra gli «ultimi» del Bangladesh. Le piogge monsoniche iniziate il 10 giugno hanno già portato, secondo l’Oim, «significativi danni strutturali» ai campi, con oltre 14mila persone coinvolte nei primi quattro giorni.
L’aiuto dei governi e delle organizzazioni internazionali resta concreto e sicuramente necessario. Tuttavia, anche nella giornata del 20 giugno che il mondo ha dedicato ai rifugiati, i responsabili hanno dovuto guardare con apprensione alla mancanza di soluzioni praticabili per risolvere una migrazione forzata che al momento resta sospesa tra il rischio di genocidio e l’esilio. In un caso o nell’altro nell’incertezza e nella miseria. La domanda che molti si fanno ma che pochi osano esprimere è: «Ci sarà mai una patria per i Rohingya»?
Alla prova dei fatti sembra solo velleitario l’accordo tra governo del Bangladesh e quello del Myanmar del 18 gennaio, accordo che avrebbe dovuto avviare il rimpatrio degli sfollati costretti alla fuga dalle ritorsioni militari dopo l’attacco di fine agosto di militanti armati di etnia Rohingya a postazioni della polizia frontaliera birmana. Invece, il rientro di 1.500 Rohingya alla settimana entro due anni resta utopia, mentre prosegue un limitato afflusso di fuggiaschi dal Myanmar, dove resterebbero forse 300mila Rohingya su due milioni complessivi.
Per i profughi, infatti, la prospettiva di passare da campi in cui hanno almeno una dignità riconosciuta, oltre che necessità vitali garantite dal sostegno locale e internazionale, a una terra per essi ostile, in centri di accoglienza simili a campi di concentramento che li isolerebbero dalla popolazione birmana, non è semplicemente realizzabile. A ricordarlo è stato il 18 giugno, davanti al Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti umani anche l’Alto commissario Onu Zeid Ra’ad Al Hussein. «Per il rifiuto persistente di consentire l’accesso alle aree interessate dalle violenze, l’Alto commissariato Onu per i Diritti umani, l’inviato speciale Onu nel Paese e la Missione conoscitiva hanno potuto condurre solo un controllo remoto. Nell’ambito del memorandum d’intesa che il governo del Myanmar ha elaborato con il Programma Onu per lo sviluppo e l’Alto commissariato Onu per i rifugiati con l’obiettivo del rimpatrio dei Rohogya dal Bangladesh, confermo che nessun rimpatrio dovrebbe avvenire in mancanza di un controllo concreto dei diritti umani sul terreno nelle aree coinvolte».
Tuttavia, sottolinea Al Hussein, la triste sorte dei Rohingya – che ha ragioni specifiche – è anche estensione di una situazione che da decenni mantiene vaste aree del Myanmar nell’instabilità. «Dall’ottobre dello scorso anno – prosegue l’Alto commissario Onu –, negli Stati Kachin e Shan settentrionale si è riacceso il conflitto e le accuse di costanti e ben note violazioni dei diritti umani riportate includono, come altrove nel Paese, omicidi extragiudiziali, scomparse, tortura e trattamento disumano, stupro e altre forme di violenza sessuale, lavoro forzato, reclutamento di bambini tra i combattenti e attacchi indiscriminati o sproporzionati, frutto del conflitto tra le forze di sicurezza e i gruppi armati».
Una denuncia chiara e articolata che si scontra con il «muro di gomma» delle autorità civili birmane che – nonostante il ruolo-chiave del premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi – promettono ai Rohingya una reintegrazione senza riconoscimento di cittadinanza e nulla fanno in concreto per propiziarla, sottoposte come sono alle pressioni di un apparato militare che fa delle aree frontaliere zone franche in cui alimentare i propri interessi economici in associazione con i nazionalisti e con potenze confinanti.