«Noi, pellegrini in Terra Santa nonostante la guerra. Per capirla davvero»

Don Paolo Zago è appena rientrato con venti parrocchiani: il primo gruppo numeroso dall’inizio della guerra. «Qui per ascoltare anche chi non ci piace. Abbiamo incontrato i coloni»
August 19, 2025
«Noi, pellegrini in Terra Santa nonostante la guerra. Per capirla davvero»
-- | Il gruppo di pellegrini durante l'incontro con il Patriarca Pierbattista Pizzaballa a Gerusalemme
Don Paolo Zago sistema il passaporto in una tasca dello zaino. «Me l’hanno chiesto due volte: all’arrivo nel Paese e, adesso, all’uscita. Mai un problema». Intorno a lui, una ventina di pellegrini riordinano bagagli e pensieri con la lentezza rilassata di ogni ritorno. L’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv è pieno. I voli pure. Ad essere vuoti sono i Luoghi santi. «Completamente vuoti», sottolinea don Paolo. ​Parroco a Gorgonzola, da 41 anni fa avanti e indietro tra l’Italia e Israele: i pellegrinaggi, la vicinanza alla comunità cristiana, il sostegno alle suore dell’Hortus Conclusus a sud di Betlemme. Ha fortemente voluto questo viaggio. Il primo di un gruppo numeroso di pellegrini italiani dal 7 ottobre 2023. Quasi due anni.
Perché proprio adesso, con la guerra a Gaza, le tensioni internazionali?
Al Santo Sepolcro c’eravamo solo noi, a Betlemme c’eravamo solo noi, in Galilea c’eravamo solo noi, a Nazareth c’eravamo solo noi. I cristiani del posto ci guardavano come fossimo arrivati da un altro pianeta, non smettevano di ringraziarci. Si sentono soli, completamente abbandonati. Senza lavoro, che era tutto basato sul turismo, senza sostegno, senza visibilità. Quindi: quando, se non adesso?
Partire non è facile. La gente, in Italia, ha paura della situazione sul campo.
È comprensibile. Ma nessuno organizzerebbe un viaggio sapendo di correre e far correre rischi: la Terra Santa non è meno sicura di tante altre destinazioni nel mondo. Ci sono gruppi che arrivano qui dall’Asia, ci sono molti pellegrini ebrei provenienti dagli Stati Uniti che seguono i loro percorsi di fede. Ma perché non dobbiamo esserci noi? Il pellegrinaggio è soprattutto una missione.
Il modo in cui viene raccontata Israele probabilmente non aiuta.
Viene raccontata male. Non ci sono buoni e cattivi. Non ci sono “blocchi” compatti: gli israeliani di qui, i palestinesi di là. Soprattutto, questa non è una partita di calcio. Certamente è inaccettabile quando sta accadendo a Gaza, ma isolare Israele ha la sola disastrosa conseguenza di rafforzare chi sostiene posizioni estremiste, dall’una e dall’altra parte. I nostri pellegrini sanno valutare le decisioni del governo Netanyahu, ma una cosa certa: non sono antisemiti. E se non sei antisemita sai guardare oltre gli stereotipi, oltre le mistificazioni. Noi siamo arrivati qui con la volontà di capire, senza schemi, senza paraocchi ideologici. Il tentativo che abbiamo fatto è semplicemente quello di parlare con l’altro, anche quando l’altro non ci piace.
Per esempio?
Abbiamo chiesto un incontro ai coloni di Tell Shilo. Hanno accettato. Li abbiamo ascoltati. Ci hanno detto, in un confronto molto cordiale, che non si riconoscono affatto in quello che di loro si dice in Italia: hanno una percezione molto netta di essere considerati un grosso ostacolo alla pace a causa della loro aggressività territoriale. Ci hanno esposto il loro punto di vista. Hanno una visione teologico-politica sulla terra come dono di Dio, e dello Stato come realizzazione della Promessa. Una visione diversa dalla nostra, che manifesta la realtà preoccupante del nazionalismo religioso. Abbiamo anche potuto verificare come per loro la storia biblica, che ha più di 3.000 anni, sia materia viva nel presente. Ma ci siamo resi conto che non sono un blocco unico, inamovibile. Ci sono spazi di dialogo. Cerchiamoli.
Avete incontrato anche la comunità araba?
Sì. Parlando con i responsabili della moschea di Al-Aqsa e della Cupola della Roccia abbiamo potuto constatare che la loro prospettiva è esattamente speculare rispetto a quella dei coloni: la terra è loro, perché Dio a loro l’ha donata, e Israele è l’usurpatore. Tutto questo ci ha fatto capire come in questo momento storico la religione, o meglio, l’interpretazione dei testi, anziché essere la soluzione del problema sia parte del problema. Devo dire che è un aspetto particolarmente doloroso per me, come prete. Perché le tre religioni ce l’avrebbero in sé la soluzione: basta guardare questa Terra per vederle l’una accanto all’altra. Quando a Gerusalemme abbiamo incontrato il Patriarca, cardinale Pierbattista Pizzaballa, ha insistito che i cristiani posso essere l’anello di congiunzione tra queste visioni. Ci ha consegnato un appello per il ritorno dei pellegrini. Ognuno deve fare la propria parte. Noi ci abbiamo provato.
Il viaggio dei pellegrini di don Paolo Zago, il primo di un gruppo numeroso di italiani dall’inizio della guerra, nell’ottobre 2023, è stato organizzato dalla Diòmira Travel di Adriana Sigilli. «Abbiamo molto insistito su questa iniziativa – spiega –. Stando alle notizie di queste settimane, uno sarebbe autorizzato a pensare che ci siano i carri armati a Gerusalemme o a Betlemme, che l’aeroporto Ben Gurion sia una trappola a causa dei controlli di sicurezza. Non è così. Non lo è per niente. E questa narrazione sta letteralmente soffocando le comunità cristiane della Terra Santa, che vivevano esclusivamente di turismo e che ora hanno esaurito ogni risorsa». Sigilli sa quello che fa perché lo fa da 25 anni, con un’attività riconosciuta e consolidata specializzata nel turismo religioso e culturale. Il suo è un appello aperto alle istituzioni affinché aiutino i Tour Operator a recuperare questo importante segmento di settore, che non è solo un business, salvabile spostando i clienti da una destinazione all’altra, con la proposta in catalogo di mete alternative: il legame con la Terra Santa è insostituibile, e ha motivazioni profonde, che interpellano ogni cristiano. «Ci sono molte parrocchie che chiedono di tornare. Eppure noi registriamo continue difficoltà. Incontrando il Patriarca Pizzaballa, durante questo viaggio, gli ho rivolto una domanda precisa: in cosa sbagliamo? Forse nella comunicazione? Ci ha risposto che, effettivamente, è molto difficile far comprendere la complessità di questa terra. Ma ha rinnovato la speranza per una piena ripresa dei pellegrinaggi».
Le questioni di sicurezza sono da valutare e tenere nel conto. «Non metterei mai in pericolo chi si affida a noi. Certo: ci siamo attrezzati anche per tamponare situazioni di criticità, che possono verificarsi in Israele come in qualsiasi altra parte del mondo. Tre anni fa sono entrati quattro milioni di turisti: il Paese ha tutte le strutture e l’esperienza per gestire flussi piccoli e grandi. Ed essere pellegrini non è solo un arricchimento personale: in questo momento così buio è un modo per trovare con i proprio occhi un po’ di luce. Un modo per capire che qui c’è gente che vive insieme. Nonostante la guerra, nonostante l’odio, nonostante i sentimenti di vendetta».
Don Paolo Zago con Adriana Sigilli - --
Don Paolo Zago con Adriana Sigilli - --

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