Nella parrocchia di Gaza, che resiste. «Portiamo questa Croce per tutti»

Padre Romanelli dopo gli attacchi alla chiesa della Sacra Famiglia ha deciso di restare con i suoi parrocchiani. Tra attività, distribuzione degli aiuti e preghiera, l'impegno non si ferma
September 23, 2025
Nella parrocchia di Gaza, che resiste. «Portiamo questa Croce per tutti»
Facebook / Gabriel Romanelli | Padre Romanelli in parrocchia con alcuni ragazzi
A breve cadrà la pioggia sulle rovine di Gaza City. Non sarà capace di fermare aerei e carri armati, né di spegnere gli incendi delle case che continuano a collassare. Tintinnerà ottusa sui sacchi di plastica o i lenzuoli che avvolgono i cadaveri, fuori dalla bolgia dei Pronto soccorso o fra le mani dei parenti raccolti nella processione funebre. Farà delle strade un pantano limaccioso e malsano, si insinuerà nei rifugi scavati fra le macerie, fra i teli logori delle tendopoli. Si farà malattia nei corpi che restano e in quelli che fuggono verso più larghi gironi infernali, a sud. Pensa già agli altri padre Gabriel Romanelli, a chi non sarà protetto dalle mura della parrocchia della Sacra Famiglia: «La maggioranza della popolazione vive nel nulla, all’aperto. Conosciamo così tante storie. Se è vero che 400mila abitanti hanno abbandonato la città, significa che ne rimangono 600mila. La situazione si aggrava ogni giorno, i bombardamenti sono ovunque, le persone sono inquiete, spaventate. Noi distribuiamo tutto ciò che arriva, acqua, cibo medicinali, ai 450 rifugiati della parrocchia e a nostri vicini, che sono tanti», racconta con voce provata ad Avvenire.
Sotto la croce e il pinnacolo distrutto dal bombardamento del 17 luglio, a causa del quale sono morte tre persone e 11 sono rimaste ferite, compreso lo stesso padre Romanelli, passano tutti i giorni macchine e camion diretti verso Deir al-Balah e Khan Yunis, i governatorati meridionali dove manca tutto, tranne la fame e la morte quotidiane, quali che siano le rassicurazioni dell’esercito israeliano. Sul cassone dei catorci il catalogo delle case smantellate e ricomposte nelle cataste deformi. Le figure impolverate e quiete, gli occhi mesti dei vecchi e dei bambini. È la nuda vita, che sfugge alla morte per andare verso la miseria.
Fin dai primi ordini d’evacuazione l’argentino Romanelli e il suo piccolo popolo hanno deciso che sarebbero restati. «Nosotros seguimos», ha detto nei primi giorni di agosto, «noi continuiamo, abbiamo la Croce, la Croce che sta attraversando tutto questo popolo». Sarebbe impossibile evacuare i malati e i feriti che la Sacra Famiglia protegge e cura. È l’eroismo involontario della mite innocenza, la scelta che guarda alle radici e al cielo, oltre le disumane ragioni della Storia. «Noi continuiamo a pregare, a lavorare per la pace, ad avere cura degli anziani e dei bambini con l’aiuto delle suore di Madre Teresa. Può sembrare inspiegabile, ma cerchiamo di mantenere le nostre attività con i fanciulli, cantiamo con loro, giochiamo con loro, proviamo a diminuire gli effetti terribili di questa guerra», spiega abuna, “padre nostro”, Romanelli. A 400 metri le esplosioni, i traccianti dei missili nell’azzurro, le nuvole di fumo e le grida. Dentro il coro dello Stabat Mater, le Messe al buio celebrate con la luce dei telefoni o delle candele, il volto sorridente dei bambini. Un’isola dello spirito assediata dalla barbarie.
«Il lavoro, la ricerca di cibo, acqua e medicinali occupano quasi per intero le nostre giornate», dice Musa Ayad, che vive dentro la parrocchia con la moglie e tre figli, uno dei quali affetto da una grave malattia cronica. Ogni giorno Musa, manager sanitario, percorre le strade distrutte fino all’ospedale al-Ahli, nel quartiere di Zeitun, uno fra i più colpiti dai bombardamenti, l’unico funzionante insieme a quello di al-Shifa.
«È un orrore quotidiano, i feriti sono dappertutto, la sofferenza inenarrabile». La settimana scorsa l’area contigua all’ospedale, coperta di tende in cerca di protezione, è stata bombardata. Quattro le persone uccise. «Cammino sapendo che ogni passo potrebbe essere l’ultimo», dice Musa. Al ritorno la sfida consiste anche nei prezzi della poca merce rimasta nei negozi, quintuplicati, talvolta decuplicati dall’assedio e dai profittatori. Tornato fra le mura della Sacra Famiglia trova l’ansia e la paura dei figli, che placa con la moglie, con la comunità, stretta ormai dal vincolo del dolore condiviso, della sopravvivenza. Una piccola nuova identità, dentro quella di Gaza City, e della Striscia tutta.
Con alcuni mezzi la parrocchia ha contribuito due settimane fa a salvare gli antichissimi reperti del deposito archeologico della Scuola biblica francese, entrata nel mirino delle demolizioni. Sarebbero finiti sotto le macerie 180 metri cubi di reperti, i millenni di Gaza, simbolo profondo dell’immemorabile crocevia mediterraneo di genti e culture, pronto ad essere sostituito da avveniristici e distopici progetti di riqualificazione. «Il riconoscimento dello Stato palestinese è un passo importante, anche se tardivo. Adesso bisogna fermare il massacro. Le vite umane perdute sono molto più importanti di uno status giuridico», afferma Musa.
«Spero che l’appello per la pace del Patriarca latino di Gerusalemme, il cardinale Pier Battista Pizzaballa, e del Patriarca greco-ortodosso Teofilo III, venga accolto. Spero che la voce del Santo Padre, che da tempo chiede la fine della guerra, sia ascoltata», dice padre Romanelli che anche ieri – come ha confermato Leone – ha avuto il conforto di una chiamata dal Papa. Nosotros, seguimos.

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