Le contraddizioni dell'Africa spiegate da padre Albanese

di Lucia Bellaspiga
Il continente più giovane, ma anche ancestrale. Ricco di risorse naturali, eppure povero. Depredato e vittima, oggi con tutte le carte in regola per riscattarsi
November 15, 2025
Il primo piano di un uomo africano in abiti tribali da cerimonia, con un ampio mantello giallo. Sopra, il titolo: "Afriche, inferno e paradiso"
La copertina del libro di Giulio Albanese/ VATICAN MEDIA
L’Africa, anzi le Afriche, non sono povere. Sono impoverite. Nella differenza tra l’aggettivo e il verbo al passivo c’è tutto lo stile asciutto di padre Giulio Albanese, missionario comboniano e giornalista di razza, ora in libreria con il suo ultimo volume: Afriche, inferno e paradiso, sottotitolo Viaggio in un continente dai mille contrasti (Libreria Editrice Vaticana, 411 pag., 25 euro, prefazione del cardinale Francesco Montenegro). Afriche al plurale, dunque, perché un territorio grande tre volte l’Europa, risultato di occupazioni coloniali e storie antitetiche, non consente generalizzazioni. E padre Albanese, attualmente direttore dell’Ufficio per la Cooperazione missionaria del Vicariato di Roma, ci è arrivato nel 1982 per restarci decenni.
Se l’Africa non è povera ma è stata impoverita, qualcuno lo ha fatto. E padre Albanese, tra competenze geopolitiche ed esperienza diretta, mette il dito in tutte le piaghe, non quelle fisiche dei diseredati, ma quelle ciniche di un Occidente che ha reso impossibile il progresso umano, sanitario, scolastico e quindi sociale di popolazioni da sempre depredate. Eppure, come avverte il sottotitolo, se c’è un inferno c’è anche un paradiso. E non è quello da mal d’Africa, con maestosi animali che lentamente percorrono le savane, ma l’energica vitalità di un continente che è giovane (l’età media è di 20 anni), ha risorse sconfinate, saperi ancestrali, è determinato a rinascere e avrebbe pure le forze per farlo. Il giornalista missionario racconta entrambi gli aspetti, le enormi ricchezze e la maledizione di possederle, le nuove generazioni scese in piazza nelle capitali per un’Africa democratica e moderna e la difficoltà di liberarsi dal cappio neocolonialista con cui l’Occidente – ma anche Russia e Cina – continuano a sfruttarla.
La prima forma di solidarietà, scrive l’autore, è l’informazione. Se si conoscesse cosa avvenne e cosa avviene in Africa, tante cose sarebbero capite. Ma l’Africa non fa notizia, occorre un cataclisma o un’epidemia perché se ne parli (sempre che in qualche modo metta a repentaglio anche noi), persino i conflitti sono “dimenticati”, come dimostra la feroce guerra in Sudan, l’emergenza umanitaria più grave del pianeta, «su 45 milioni di abitanti la metà sono profughi, ma non meritano attenzione…». Semmai fanno notizia gli sbarchi sulle nostre coste, ma le cronache non conoscono il prima. «Nelle Afriche anche la corruzione è terreno di business, ci si dimentica che dove ci sono i corrotti ci sono i corruttori», scrive. Eppure nella narrazione stilata sui Paesi più disonesti «manca sempre l’interfaccia, il dato dell’enorme ricchezza che finisce nelle tasche dei corruttori». Anche il debito, così assurdo in un continente ricchissimo, «è stato finanziarizzato, il pagamento degli interessi è legato alle speculazioni della Borsa, secondo un sistema vessatorio che strangola e preclude ogni possibilità di risalire». Persino le trattative di pace sono dettate dalle commodity e dagli interessi economici, «Trump e la Cina si affrontano sul terreno congolese a causa del coltan», il minerale essenziale per produrre i nostri cellulari. «E i mercenari russi non sono certo benefattori…«ì».
Era in Congo con papa Francesco nel 2023 quando lo vide lanciare il suo ammonimento, “Giù le mani dall’Africa!”. Spesso a sorreggerla è solo la Chiesa nelle sue varie declinazioni, l’unica a promuovere riscatto e fede viva, con sguardo ben diverso da quello paternalistico con cui ci sentiamo “benefattori” anziché debitori di una giustizia negata. «Essere cattolici – rimarca Albanese – è affermare la globalizzazione intelligente e perspicace di Dio, che poi è quella della solidarietà». Insomma, il suo è un testo che induce a rivedere ogni certezza, ma nel frattempo reindirizza la cooperazione allo sviluppo, affinché investa «sui giovani e sulla società civile, che diventi il vivaio di una nuova classe dirigente: le Afriche hanno le carte in regola per farcela».

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