La strage a Rafah “riapre” i negoziati. Ma Israele avanza
di Nello Scavo
La condanna internazionale della carneficina di 31 civili, disarmati, ha spinto gli Usa a fare pressione su Tel Aviv. Stamani l'esercito ha sparato ancora, a 500 metri dagli aiuti: almeno 27 morti

Stamani le truppe israeliane hanno sparato nuovamente su un folto gruppo di persone a 500 metri dal sito di distribuzione degli aiuti della Gaza Humanitarian Foundation a Rafah. Stando al ministero controllato da Hamas, i morti sarebbero almeno 27 e oltre 90 i feriti. L'esercito ha informato che, avendo individuato sospetti che si avvicinavano deviando dal percorso stabilito, «i soldati hanno sparato colpi di avvertimento e, poiché non si sono dispersi, hanno aperto il fuoco». L'agenzia palestinese Wafa, citata dal Guardian, riferisce di altri dieci uccisi, tra cui due bambini, stamani in un raid a Khan Yunis. Nel nord, tre soldati sono stati uccisi dall'esplosione di un ordigno. La Ghf sostiene che la distribuzione degli aiuti «è avvenuta oggi in modo sicuro e senza incidenti».
La carneficina di domenica, con almeno 31 morti e 175 feriti, tutti civili disarmati, falciati ad altezza d’uomo da raffiche di vario calibro, fa alzare i toni tra le parti che si accusano a vicenda, ma ha rilanciato l’urgenza di un accordo per fermare il bagno di sangue a Gaza. Le forze israeliane hanno annunciato di avere «ampliato l’area di intervento armato», costringendo altre migliaia di civili a spostarsi nuovamente verso aree che in ogni caso non sono immuni dagli scontri: altri 30 morti registrati solo ieri, tra cui 6 bambini. E ai mediatori appare chiaro quali siano gli ostacoli per un affidabile cessate il fuoco: gli scopi che le parti si prefiggono. Hamas chiede una tregua permanente, che consentirebbe al gruppo armato di mantenere la sua influenza sulla Striscia. Israele, esattamente il contrario. La nuova proposta dell’inviato Usa Witkoff ha fatto chiedere ai fondamentalisti una clausola che garantisca «la continuazione dei negoziati fino al raggiungimento di un accordo permanente». Un modo per estendere lo stop alle ostilità oltre la scadenza dei due mesi, impedendo a Israele di tornare a combattere. Ma nel clima di reciproca sfiducia questa ipotesi semplicemente non è praticabile.
I principali mediatori arabi, Qatar ed Egitto, si sono impegnati a «intensificare gli sforzi per superare gli ostacoli che si frappongono ai negoziati». E lo stesso Witkoff pur respingendo la controproposta di Hamas, non ha sbattuto la porta, invitando gli estremisti ad accettare «la proposta quadro che abbiamo avanzato come base per i colloqui di prossimità, che potremo avviare immediatamente». Da Doha il politburo di Hamas ha fatto sapere di essere pronto «ad avviare immediatamente un ciclo di negoziati indiretti per raggiungere un accordo sui punti controversi». Ponendo però una condizione indigeribile: i negoziati devono ambire a «un cessate il fuoco permanente e al completo ritiro delle forze di occupazione». Parole che in realtà sfidano gli Usa a mostrare la volontà di spingere le parti a un compromesso.
La mattanza di domenica in un modo o nell’altro determinerà i prossimi passi. Come siano andate esattamente le cose, mentre a migliaia si ammassavano in direzione di uno dei centri di distribuzione degli aiuti, è difficile da ricostruire. Che si sia trattato di qualcosa di più che un singolo episodio in una sola giornata, lo conferma ad Avvenire il portavoce della Federazione internazionale della Croce Rossa, che da Ginevra ha raccolto i report degli operatori presenti nella Striscia. «C’è stato un incidente nelle aree di Rafah e Khan Yunis, vicino al sito di distribuzione degli aiuti». Solo la Mezzaluna rossa ha trasportato «23 morti e 23 feriti, provenienti dalle due località prese di mira a Khan Yunis e Rafah. C’è stato anche un altro incidente nella parte centrale della Striscia – spiega Della Longa – , sempre vicino a un punto di distribuzione degli aiuti, dove sono stati trasportati circa 14 feriti». Sono operativi solo quattro hub di distribuzione, contro i 400 delle organizzazioni internazionali, prima del blocco israeliano. Tre centri sono a Rafah, nel sud della Striscia, e il quarto nella zona centrale. Tutti nei pressi di aree controllate da militari israeliani e sorvegliati da contractor armati. Nessuno dei punti di distribuzione si trova nel nord. La concentrazione della distribuzione nel sud della Striscia è vista come un tentativo di forzare lo spostamento della popolazione verso l’area al confine con l’Egitto. Un video diffuso attraverso fonti israeliane mostra alcuni uomini armati, con divise senza insegne, spingersi in mezzo a un gruppo di centinaia di civili disarmati e aprire il fuoco. Le immagini, secondo diverse testate internazionali e operatori umanitari sul posto, riguardano però un luogo differente. Secondo Time of Israel le forze di difesa di Tel Aviv inizialmente non hanno «negato esplicitamente che ci siano stati spari, ma hanno detto di non essere a conoscenza di alcun ferito “all’interno” del sito degli aiuti». Qualche ora dopo le prime dichiarazioni, riporta sempre la testata israeliana, l’esercito ha definito «false» le accuse, e ribadito di non aver aperto il fuoco contro i palestinesi nel luogo di distribuzione degli aiuti o nelle sue vicinanze. Tuttavia «un funzionario militare israeliano – contattato sempre dal Time of Israel – ha riconosciuto che le truppe hanno sparato colpi di avvertimento durante la notte a circa un chilometro di distanza dal sito degli aiuti, ore prima che la struttura aprisse per distribuire gli aiuti ai palestinesi».
Ieri mattina la Gaza Humanitarian foundation ha diffuso un nuovo comunicato a 24 ore dai fatti. «Ribadiamo che non ci sono stati feriti, morti o incidenti durante le nostre operazioni di ieri (domenica, ndr). Punto. Non abbiamo ancora visto alcuna prova concreta che ci sia stato un attacco all’interno o nelle vicinanze della nostra struttura», si legge nella nota. Che poi si fa più cauta: «Non controlliamo l’area al di fuori dei nostri siti di distribuzione e delle vicinanze e non siamo a conoscenza delle attività dell’Idf (le forze armate israeliane, ndr) al di fuori del nostro perimetro, che è ancora una zona di guerra attiva».
Hamas, secondo fonti diplomatiche, punta anche sul malcontento dei riservisti israeliani, che da quasi due anni a causa della guerra stanno lontani dalle famiglie e dal lavoro. A Gaza, però, cresce anche il dissenso contro Hamas. I frequenti saccheggi da parte di gang autonome, e l’eliminazione dei vari leader militari sul terreno, mostrano un crescente indebolimento del gruppo estremista. Argomenti che i mediatori cercheranno di usare questa settimana per rilanciare il negoziato.
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