La poverissima Argentina, che domenica decide sul futuro di Milei
Le legislative di domenica saranno un referendum sulla "mileieconomics" che ha frenato l'inflazione ma non la svalutazione della moneta. L'abbraccio rischioso di Trump

«È rischioso abbracciare l’orso». Chissà se, all’uscire dallo Studio Ovale, la settimana scorsa, a Javier Milei sarà tornato in mente il vecchio detto argentino sul potente vicino del Nord: Washington. Fu coniato nel 1945 quando l’allora ambasciatore statunitense Spruille Braden decise di entrare a gamba tesa nella campagna elettorale del Paese australe per boicottare l’ascesa di Juan Domingo Perón. Il generale, in risposta, giocò la carta nazionalista e il motto «Braden o Perón» divenne il cavallo di battaglia della campagna elettorale. Una mossa vincente. Ottant’anni dopo, Cristina Fernández Kirchner e schieramento hanno rispolverato lo slogan, riadattandolo nella formula: «Trump o Argentina». L’abbraccio dell’orso Usa, di nuovo, rischia di strangolare l’alleato platense alla vigilia delle politiche di domenica in cui i cittadini sono chiamati a eleggere metà dei deputati – 127 –, un terzo dei senatori, 24, e dei governatori. Il presidente Javier Milei si è stretto alle braccia salde della Casa Bianca per fronteggiare la “fine del miracolo” e il calo nei sondaggi che, fino a sei mesi fa, davano per certo il trionfo del suo partito, La Libertad avanza. In un anno e mezzo di motosega, l’ex economista iper-liberista è riuscito a spezzare la spirale dell’inflazione, portando l’aumento dei prezzi mensile intorno al 2 per cento, meno di un sesto rispetto all’inizio del mandato. Non ha, però, risolto il nodo cruciale dell’economia nazionale: la carenza di dollari. Dalla scorsa primavera, quando il governo di ultra-destra ha rimosso i limiti all’acquisto, gli argentini si sono lanciati nella solita corsa al biglietto verde. La moneta nazionale è crollata del 25 per cento. Di fronte alla pesante svalutazione, a settembre, Milei ha chiesto l’aiuto di Trump, amico e modello, ottenendo più del previsto. Un decisione controcorrente rispetto alla cautela solita statunitense: gli ultimi precedenti risalgono all’Amministrazione Clinton – in favore del Messico di Ernesto Zedillo – e Bush, per l’Uruguay. Nessuno dei due, però, tirò fuori un dollaro. Trump ha mobilitato venti miliardi di credito attraverso banche private e altrettanti ne ha fatti sborsare al Tesoro per immettere liquidità nel mercato cambiario argentino e sostenerne la valuta. Non un «salvataggio» – ha tenuto a precisare il tycoon -, bensì il “contributo al programma di successo del presidente”.
Poteva fermarsi là. Ma The Donald è un orso imprevedibile. E ha voluto aggiungere una “zampata” a sorpresa: «Se Milei perde, smetteremo di essere generosi». Le sue parole hanno prodotto un duplice impatto. Negativo. Economico, in primis. Di fronte all’incertezza dell’appoggio Usa – la vittoria del partito di governo è appesa a un filo –, gli investitori hanno ripreso gli acquisti compulsivi di dollari, vanificando l’intervento di Washington. Il biglietto verde è schizzato oltre la soglia record di 1.400 pesos: invece di placare la tempesta, Washington ha contribuito a creare nuove turbolenze. Dal punto di vista politico, poi, la “minaccia” del tycoon rischia di galvanizzare l’anti-americanismo argentino: già il 60 per cento degli elettori ha un’opinione negativa del leader Usa. Tanto più che non è chiara la contropartita: si parla di concessioni per gli Stati Uniti nel litio e altri minerali critici oltre a una riduzione dell’influenza cinese. Il presidente argentino potrebbe pagarne il prezzo: le imminenti politiche si profilano come un referendum sulla “Milei-economics”. Le ultime rilevazioni danno il suo schieramento al 36,7 per cento contro il 34,8 per cento dell’opposizione peronista. Fino a due mesi fa, lo stacco era di dieci punti. Gli scandali di corruzione che hanno coinvolto il principale candidato, José Luis Espert, accusato di legami con il narcotraffico, e Karina Milei, sorella e principale collaboratrice del leader, hanno innescato il calo, acuito dall’impasse economico. Il mix s’è rivelato esplosivo al voto nella provincia di Buenos Aires di settembre, dove il centro-sinistra riunito ha oltrepassato di 14 posizioni il fronte libertario. Un campanello d’allarme che ha spinto Milei tra le braccia dell’orso. L’effetto, però, non è stato quello desiderato. È probabile che siano state le conseguenze impreviste a determinare le improvvise dimissioni, mercoledì, di Gerardo Werthein, ministro degli Esteri ed ex ambasciatore a Washington, designato proprio per cementare i rapporti con la Casa Bianca. Incarico che l’ex capo della diplomazia di Buenos Aires ha preso fin troppo alla lettera. Il suo ruolo è stato chiave per convincere Trump a spendersi – e spendere – in favore della Repubblica del Plata. Non è, però, andato come previsto. E il circolo più estremista, legato al consigliere Santiago Caputo, l’ha utilizzato come capro espiatorio. La sua uscita si associa a un ulteriore arroccamento del governo sulle proprie posizioni. Milei appare sempre più determinato ad applicare la motosega a oltranza. Anche contro il Parlamento, sempre più insofferente nei confronti dell’intransigenza presidenziale.
La Libertad avanza ha una pattuglia ridotta di 37 deputati e sei senatori: finora, per portare avanti il proprio programma, è stato costretto a negoziare con la destra tradizionale. Di fronte ai recenti tagli all’istruzione e al maggior ospedale pediatrico, il Garrahan, lo schieramento conservatore si è ribellato. Misure trasversalmente impopolari nel Paese: nove argentini su dieci sono contrari. Entrambe le Camere, due settimane fa, si sono espresse a maggioranza di due terzi a favore del finanziamento all’educazione superiore e alla famosa clinica pubblica. L’esecutivo, mercoledì, ha promulgato le rispettive leggi ma le ha sospese per decreto fino a quando il Congresso non specificherà da dove avrebbe preso i fondi. È la seconda volta nel giro di un mese che Milei respinge le decisioni del potere legislativo. Con la misura che dichiarava l’emergenza per i disabili e sbloccava i soldi per la loro assistenza, il 22 settembre, aveva fatto lo stesso. Un fatto inedito nella storia politica del Paese dove nessun presidente ha stracciato normative passate con un consenso tanto ampio. L’opposizione ha annunciato un ricorso per incostituzionalità mentre le proteste popolari si moltiplicano. Anche perché, nelle stesse settimane, il presidente diminuito «temporaneamente» le tasse a un gruppo di multinazionali agricole e minerarie, facendo risparmiare loro 2 miliardi di dollari. Ventidue mesi di “cura-choc” pesano sulle spalle dei gruppi popolari e, soprattutto, della classe media. Il calo dell’inflazione è stato accompagnato da un incremento record dei servizi di base – acqua, elettricità e gas –, cresciuti di oltre un terzo. Un fardello che nemmeno l’abbraccio dell’orso del Nord – rischi a parte – ha il potere di alleviare.
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