La nuova vita di Iman, bimba di Gaza: non respirava, ora va in monopattino
di Laura Silvia Battaglia, Amman
Nell'ospedale di Msf in Giordania, la madre Rana piange di gioia: la piccola, gravemente ferita, era già stata preparata per le abluzioni funebri quando si è risvegliata

Iman è nata due volte. Adesso scorrazza in monopattino rosso tra i corridoi dell’ospedale di Medici senza frontiere di Amman con il suo tutore rosa, agganciato a braccio e gamba. Ai genitori non sembra vero. «Iman è viva, Iman è viva», continua a ripetere la madre, Rana Abu Marshood, toccandola e guardando questa bimba di appena cinque anni. «È stato un miracolo», dice tra le lacrime. Rana è arrivata dalla Striscia di Gaza in Giordania con la bambina, attraverso il valico di terra di Kerem Shalom/Allenby, dieci mesi fa, prima che venisse chiuso per «terrorismo»: il 18 settembre scorso un autotrasportatore ha aperto il fuoco e ha ucciso due militari israeliani al valico, prima di essere colpito a morte dalle forze di sicurezza. L’episodio, rubricato dalle autorità israeliane e giordane come un attacco ad opera di un soggetto isolato, non è stato rivendicato da nessun gruppo politico o armato ma ha avuto, tra gli altri effetti, il blocco del passaggio delle famiglie di Gaza ammesse al programma di accoglienza medico-sanitaria istituito dal re Abdallah di Giordania, in collaborazione con l’Organizzazione mondiale della sanità, il ministero della Salute giordano, la Mezzaluna Rossa e altre organizzazioni, tra cui Medici senza frontiere.
Iman è una tra i 2mila bambini palestinesi feriti, amputati, con lesioni alla spina dorsale o ad altri organi vitali, oppure pazienti oncologici, evacuati da Gaza nell’ultimo anno e mezzo. Ma il suo caso, nella Striscia, ha fatto scalpore. «Era ferita: sembrava che la sua condizione fosse irreversibile. I dottori avevano fatto di tutto per rianimarla. Avevamo perso le speranze». Mamma Rana ritorna con la memoria a quei momenti e si serve dell’ausilio dei video che ha gelosamente conservato nel telefono per dare l’idea di ciò che ha passato un anno fa all’ospedale Nasser di Gaza City ma cerca di andare spedita nel racconto, mentre la bimba passa, in cortile, dal monopattino all’altalena, «una grande conquista, per lei», dice in un mezzo sorriso. «Non vuole parlare di ciò che ha vissuto e, se sente che io lo racconto a qualcuno, inizia a distrarmi e a gridare istericamente». La reazione traumatica della bimba non sorprende perché, ritenuta morta, era già stata preparata in ospedale per le abluzioni del rito funebre. «Ma poi è successo, Dio sia lodato, e si è svegliata!». La madre – una giovane donna dal piglio deciso – alza gli occhi al cielo. Non ha una spiegazione medica: per lei è solo un «miracolo». «Aveva smesso di respirare, anche se avevano cercato di rianimarla. Non sono degna di una grazia così grande».
Rana e la sua bimba torneranno a Gaza appena possibile: il programma non prevede infatti l’accoglienza prolungata in Giordania ma solo la cura e il rimpatrio. «Al momento abbiamo qui in ospedale cento gazawi di cui 47 bambini – spiega Cyril Cappai, direttore della missione di chirurgia ricostruttiva di Medici senza frontiere – e la prossima settimana siamo pronti ad accogliere altri nove pazienti e dodici familiari accompagnatori: ci prendiamo cura di tutti loro, considerato che i bambini non possono arrivare da soli ed è necessario fornire supporto psicologico anche alle famiglie coinvolte. Ne prenderemmo di più, considerato che la lista di pazienti giovanissimi da evacuare è letteralmente infinita. Solo nel 2024 abbiamo ospitato 420 pazienti e abbiamo realizzato 830 chirurgie».
Il cessate il fuoco in atto potrebbe aprire maggiori opportunità di cura, ma le famiglie ospiti all’ospedale di Amman – da anni conosciuto come «l’ospedale di tutte le guerre», essendo nato durante la seconda guerra del Golfo in Iraq, nel 2006 – non vedono per loro un futuro fuori da Gaza. Kholood al-Hamawi, madre di Sara, qui in cura per una grave disabilità acquisita dopo i bombardamenti israeliani, nonostante abbia perso tutti i familiari e si sia lasciata indietro altri figli, portando con sé solo le due femmine, Sara e Salwa, non ha dubbi: «Noi non abbiamo un futuro se non in Gaza. La nostra casa, la nostra terra è lì. Andrei in Europa solo se fosse strettamente necessario per curare le mie bambine. Spero che tutto si risolva presto qui ad Amman».
Il suo punto di vista sembra intercettare anche quello della politica: il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi, al vertice di Sharm el-Sheikh, non è stato tenero nei confronti del governo israeliano in carica, definito «di destra estremista e traditore», ma la mano tesa ai colloqui di pace e la firma sul documento indicano che la Giordania non intende stracciare i rapporti con Tel Aviv e sceglie la linea della cautela, augurandosi di non dovere riaprire i suoi valichi agli sfollati palestinesi di una terza Nakba. Nel frattempo, il Centro nazionale per la sicurezza e la gestione delle crisi si è affrettato a costruire nuovi compound nella regione di Azraq, già interessata a questa destinazione, motivando la scelta come soluzione ideale a potenziali terremoti, nel timore che possano accadere fenomeni simili a quelli avvenuti in Turchia e Marocco. Daoud Kuttab, giornalista e voce prominente della prima diaspora palestinese e direttore di radio al Balad, dà voce a quello che tutti i palestinesi, qui ad Amman, hanno già in testa: «Perfetti per metterci dentro i gazawi»
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