La casa delle trenta ragazze che resistono

di Lucia Capuzzi, inviata a Port-au-Prince
Nella villetta a due piani, gestita dall'organizzazione Diakonie, sono rifugiate bimbe e adolescenti con le loro madri
November 9, 2025
Un fuoristrada di Msf davanti alla clinica a Port-au-Prince
I tagli degli aiuti Usa hanno fatto chiudere molti progetti: la pressione su quelli rimasti d'è fatto enorme/Marx Stanley Léveillé/MSF
Alle finestre ci sono le tende. Sui letti – quattro per camera con bagno adiacente – sono adagiate lenzuola colorate. Rosa e viola, le tinte dominanti. Le stesse dei disegni appesi alle pareti. Ogni angolo è curato nei minimi dettagli nella casa delle “fanm ki kenbe fèm”, le donne che resistono. Chiamano così la villetta di due piani situata in una strada appartata di Delmas, poco lontano dal centro di Port-au-Prince. Qualunque altra indicazione deve essere evitata per non mettere a rischio le trenta giovani rifugiate all’interno. Bimbe e adolescenti con le loro madri. La più piccola ha 7 anni, la maggiore 25. Tutte in fuga dalle gang che hanno razziato i rispettivi quartieri e massacrato i familiari. Tutte sopravvissute alle botte, alle sevizie, agli stupri multipli. “Fanm ki kenbe fém”, donne che resistono, appunto.
A offrire loro uno dei pochi spazi sicuri esistenti nel Paese è Diakonie Katastrophenhilfe (Dkh) che, dal 2023, sostiene queste realtà nate dal lavoro di varie associazioni locali. L’edificio originario, creato nel 2008, è inaccessibile a causa delle bande armate che hanno preso il controllo della zona. Al suo posto, ci sono due strutture più piccole, mimetizzate nel tessuto urbano: una per le giovanissime, l’altra per le adulte. Dkh spera nell’apertura a breve di una terza, sottolinea Antoince Jeune, responsabile nell’isola dell’organizzazione tedesca. «Il fatto è che la richiesta è enorme. La casa è sempre piena, anzi abbiamo 30 ospiti per 25 posti», spiega Lamercie Emmanuelle, responsabile di Ofava, partner locale di Diakonie Katastrophenhilfe. Il taglio dei fondi della cooperazione Usa deciso dall’Amministrazione guidata da Trump, poi, ha costretto tantissime piccole organizzazioni haitiane a interrompere i programmi di assistenza da un giorno all’altro. E la pressione su quelle rimasti si fa insostenibile. «Non è facile scegliere chi aiutare. Cerchiamo di accogliere le più vulnerabili: quante non hanno più parenti o hanno subito eventi particolarmente traumatici – sottolinea Lamercie Emmanuelle –. Che cosa vuol dire in concreto? Che sono state violentate più volte, mutilate, hanno visto assassinare la famiglia sotto i propri occhi». È accaduto a Diana, 16 anni, capelli raccolti, volto serio, al visibilmente incinta. Cerca di raccontare quel giorno di gennaio quando un commando della gang “400 Mawozo” ha fatto irruzione nel sobborgo di Croix-des-Bouquets, alla periferia della capitale, e ha massacrato chi non è riuscito a scappare. Tra questi la madre e il padre. Le parole, però, le restano incastrate in gola. «Vorrei solo tornare a scuola», sussurra fra i singhiozzi. Quando la sua esistenza è andata in frantumi frequentava la terza elementare. «La condizione delle haitiane è sempre stata disastrosa. Ora, però, non c’è una parola adatta per definirne la crudeltà. È terribile: una serie ininterrotta di violenza. Molte ragazzine finiscono per “fidanzarsi” con i banditi per disperazione: almeno saranno abusate da una sola persona che le difenderà dagli altri», prosegue Lamercie. Alla casa arrivano distrutte, dentro e fuori. Ferite di vario tipo sul corpo, infezioni, mente confusa.
«È incredibile come siano ancora vive. Eppure lo sono. E lottano per resistere. “Kenbe fém”, si dice ad Haiti a mo’ di saluto: tengono duro. Tante, piano piano, ce la fanno». «Sì, qualche volta penso al futuro. Vorrei fare l’infermiera – conclude Diana –. È un bel lavoro: puoi prenderti cura delle persone, come fanno qui».
Di tanto in tanto si accarezza la pancia: a giorni partorirà. Prima afferma di non avere scelto un nome. Poi nasconde il viso dietro un fazzoletto e aggiunge: «Mi piacerebbe chiamarlo Lamercie...»

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