Il suprematismo arabo in Darfur ha un'impronta neocoloniale

Gli Emirati stanno sperimentando in Sudan la stessa strategia seguita in Libia con Haftar: puntare su una fazione, in questo caso i paramilitari delle Rsf, per prendere il potere. Per questo, gli altri Stati che contano nella regione sono avvisati
November 10, 2025
Il suprematismo arabo in Darfur ha un'impronta neocoloniale
Sfollati interni in Sudan, durante uno spostamento a seguito della guerra in corso / Epa
L'ombra del disegno neocoloniale degli Emirati Arabi si allunga dietro i recenti massacri a sfondo etnico in Darfur, in Sudan. L'ultimo bagno di sangue è stato quello che ha inorridito il mondo a El Fasher, città assediata per 18 mesi dai paramilitari delle Rsf, le forze di supporto rapido sostenute dagli Emirati. Sono milizie di lontana discendenza araba che ora controllano tutto il Darfur e potrebbero dichiararne la secessione. Questi suprematisti arabi affondano le radici nelle milizie Janjaweed, i diavoli, che circa 20 anni fa su ordine dell’allora presidente Al Bashir sterminarono 300mila persone per ripulire il Darfur dagli “africani”, agricoltori di pelle scura, commettendo un genocidio. Furono poi gli Emirati a finanziare la riorganizzazione dei genocidari in milizie paramilitari di frontiera imponendo come capo l’ex cammelliere Mohammed Dagalo. Il quale, in cambio, iniziò a esportare a Dubai l'oro delle ricche miniere del Darfur, tra i principali estrattori del continente, diventando ricco e potente. Ma gli Emirati, con il pretesto di combattere i nemici giurati dei Fratelli musulmani volevano in realtà controllare tutto il Sudan con i suoi terreni fertili e lo strategico Port Sudan sul mar Rosso. Nell'aprile 2023 i due vice del vecchio Al Bashir, condannato dalla corte penale internazionale per genocidio, cominciarono così una guerra civile per il potere. Uno era il comandante dell'esercito nazionale Al Burhan e l'altro era appunto Dagalo.
Le sue Rsf sono state armate, sostenute e finanziate dalla monarchia emiratina per due anni e mezzo, come sostengono diverse analisi e organismi internazionali indipendenti. Non avrebbero potuto altrimenti proseguire il conflitto. E il Darfur è oggi diventato un punto nevralgico nella rete neocoloniale africana degli Emirati. Stesa con pazienza in 15 anni grazie alle smisurate ricchezze degli idrocarburi fino in Somalia, come spiegano recenti analisi e indagini ad esempio della testata Middle east eye. Il punto di partenza è Bosaso, porto controllato dalla multinazionale della logistica emiratina Dp world nel Puntland, il cui presidente regionale Deni è sostenuto anche militarmente da Abu Dhabi. Dall'aeroporto di Bosaso sono decollati in due anni decine di cargo, come documentato da diversi siti specializzati, carichi di rifornimenti, armi, droni e mercenari verso la Libia orientale del generale Haftar e verso il Ciad. Questi sono due altri punti chiave del network finanziato dagli Emirati che prevede anche il supporto dell'Etiopia per il trasporto dell'oro di contrabbando del Darfur in Kenya da dove naviga verso Dubai. Le quotazioni dell'oro sono salite alle stelle negli ultimi dieci anni e quindi anche i guadagni dagli Emirati Arabi, accusati dall'ong svizzera Swissaid di essere il principale hub dell'oro di contrabbando africano. In cambio il premier etiope Abiy riceve l'appoggio della monarchia emiratina alle rivendicazioni di sbocco sul Mar Rosso. Magari in Somaliland, regione secessionista somala dove Dp world controlla il porto di Berbera.
La strategia degli Emirati è stata testata in Libia lo scorso decennio con Khalifa Haftar: puntare su una fazione per prendere il potere e, se questa non ci riesce, dividere in due il Paese. Potrebbe essere il destino del Sudan e domani della Somalia – dilaniata da rivalità tra Mogadiscio e gli Stati - che, se pacificata, diventerebbe un rivale commerciale pericoloso dei porti di Abu Dhabi e Dubai. Il risiko neocoloniale emiratino ha quindi trasformato la guerra civile sudanese in un conflitto per procura con Egitto e Turchia, Arabia Saudita e Iran che si oppongono per varie ragioni e sostengono con armi e finanziamenti l'esercito sudanese. Così la pace in Sudan si allontana e la più grande crisi umanitaria del pianeta rischia di aggravarsi.

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