I nuovi muri di Trump spiegati (c'entrano la Cina e la Russia)
Ufficialmente il divieto di ingresso negli Usa per chi proviene da 12 "Stati canaglia" è motivato con la protezione della sicurezza nazionale. In realtà le ragioni del "travel ban"

Il fine del divieto – così sta scritto nero su bianco – è «proteggere la sicurezza nazionale e gli interessi degli Stati Uniti». Una «questione urgente». A conferma, il presidente Donald Trump, nel video-messaggio di presentazione del nuovo “travel ban”, ha citato l’attacco antisemita durante un corteo per il rilascio degli ostaggi israeliani avvenuto domenica scorsa a Boulder, in Colorado, di cui è accusato il cittadino egiziano Mohamed Sabry Soliman. Il Cairo, però, non è incluso nella lista dei dodici Paesi i cui abitanti saranno messi al bando da lunedì. I loro abitanti non potranno, cioè, entrare negli Usa se non in circostanze eccezionali. Figurano, invece, nell’elenco Haiti e Myanmar, i cui residenti più che rappresentare “un pericolo” per altri sono “in pericolo” loro stessi a causa della liquefazione dello Stato – è il caso dell’isola caraibica – o delle conquista del potere da parte di una giunta liberticida, come avvenuto nell’ex Birmania. Se, nel 2017, il primo “travel ban” trumpiano si era rivelato un “muslim ban” e come tale era stato respinto dai giudici, stavolta il filo rosso tra le nazioni oggetto del veto è meno vistoso. Ma altresì tangibile. E non riguarda la sicurezza. Le ragioni predominanti appaiono geopolitiche ed economiche, ambiti, per Trump, indissolubilmente legati. In gran parte dei destinatari del bando, dalla Repubblica del Congo (non quello con capitale Kinshasa tornato nell’orbita di The Donald) dal Myanmar alla Guinea Equatoriale, dalla Somalia al Sudan, la presenza cinese è cresciuta in modo significativo negli ultimi anni. In altri – vedi Iran e Libia – è Mosca ad aver guadagnato posizioni. Il che, agli occhi del leader repubblicano, li colloca automaticamente nel campo dei nemici. O meglio dei concorrenti. Come per i dazi, però, al cuore della logica trumpiana c’è il business. Niente esclude, dunque, che in caso di un eventuale cambiamento di posizionamento internazionale, tornino a dischiudersi le porte ora sigillate degli States. In questo contesto, Afghanistan e Haiti sono casi a sé. È vero che i taleban, al potere dal 15 agosto 2021, sopravvivono grazie agli investimenti cinesi e ad una certa benevolenza dell’ex rivale russo. Bloccare i visti agli afghani, però, suona un controsenso alla luce delle promesse fatte da Washington in vent’anni di occupazione e guerra al terrore. Certo, chi ha lavorato per gli americani durante la Repubblica ne è escluso. Non così, però, la generazione di attivisti – uomini e soprattutto donne – cresciuti all’ombra delle libertà, sancita almeno sulla carta, dal regime filo-occidentale sostenuto dagli Usa. Al ritiro militare – fatto materialmente da Biden ma deciso da Trump con l’accordo di Doha con i taleban –, l’America fa seguire un disimpegno dalle proprie responsabilità storiche nei confronti della nazione asiatica. Per quanto riguarda Port-au-Prince, in meno cinque mesi, la politica della Casa Bianca ha compiuto un giro di 360 gradi, passando da centinaia di migliaia di visti di protezione temporanea per i sui cittadini in fuga al muro legale. Lo stesso è accaduto per cubani e venezuelani:titolari – insieme a nicaraguensi e ai citati haitiani per un totale di oltre un milione di persone – fino al 20 gennaio, di varie forme di permessi, rimossi con un colpo di spugna. Ora si aggiungono i respingimenti all’origine da L’Avana e Caracas. I due Paesi sono fra i sette per cui vale il “bando parziale”. Motivato – sempre secondo quanto spiegato nel decreto – dal fatto che il governo cubano collabora con i terroristi mentre il Venezuela «non ha un’autorità centrale competente e cooperativa per l’emissione di passaporti e documenti civili e non dispone di adeguati sistemi di selezione». Non solo: si è anche «rifiutato ripetutamente di accogliere gli espulsi». In realtà, nell’ottica Maga, il divieto appare come l’unico argine efficace di fronte al rischio di esodo – in parte già in corso – da due vicini in grave crisi. Il “travel ban bis”, dunque, è l’altra faccia della «deportazione di massa» promessa in campagna elettorale. E iniziata con i trasferimenti di migranti nelle carceri salvadoregne e le retate nei luoghi prima “protetti”. Inclusi i tribunali dove i richiedenti asilo sono convocati per l‘esame della domanda, come accaduto questa settimana a El Paso. Provvedimenti al limite della legalità e, pertanto, contestati dai giudici che cercano di porvi rimedio, come nei confronti del guatemalteco cacciato «per errore» in Messico e riportato negli Usa. Nel frattempo, però, la macchina delle espulsioni va avanti anche se, per ragioni logistiche, a ritmo meno serrato di come i falchi dell’Amministrazione vorrebbero. Da qui l’idea di abbinare la carota al bastone con gli incentivi – mille dollari – per chi si rimpatria “volontariamente”. Per ricavare le risorse necessarie al programma, l’Amministrazione ha tagliato 250 milioni di dollari destinati all’accoglienza dei più vulnerabili. Fondi immediatamente destinati alle “auto-determinazioni”. La mossa conferma quanto la geopolitica trumpiana sia una proiezione esterna della politica interna, fondata sulla logica dell’America first. Almeno in apparenza. Quanto la chiusura ermetica dei confini sia davvero nell’interesse americano, è un altro discorso.
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