Hamas è diviso e non risponde a Trump: ecco i nodi da sciogliere
La vaghezza del nuovo piano per la pace voluto dagli Usa divide il movimento terrorista sui disarmo e ritiro dalla Striscia. Una parte vuole il sì al cessate il fuoco subito, un'altra prende tempo

Non sono dettagli. Al piano presentato da Trump e Netanyahu, lunedì alla Casa Bianca, per il futuro di Gaza – e la «pace eterna in tutto il Medio Oriente», per citare il presidente americano – Hamas starebbe eccependo che mancano garanzie internazionali. Una fonte palestinese vicina alla leadership del gruppo ha detto all’agenzia Afp che la risposta ufficiale arriverà «fra due o tre giorni al massimo», ma che l’orientamento è quello di un sì condizionato ad alcune modifiche. Ai mediatori egiziani, qatarioti e ora anche turchi – tornati in campo martedì nei colloqui di Doha – gli esponenti dell’ala politica di Hamas avrebbero ribadito «il proprio diritto di proporre modifiche al piano – informa al-Arabiya -, sottolineando come lo stesso premier israeliano Benjamin Netanyahu abbia già apportato cambiamenti».
Un rimpallo già visto – si è perso il conto di quante volte si è scritto di “spiragli per la tregua” – che questa volta ha un elemento nuovo:la concomitanza con la data chiave della guerra che si combatte, da due anni, nella Striscia. Fra pochi giorni sarà il 7 ottobre, secondo anniversario del massacro in cui i miliziani di Hamas sbucati dall’enclave trucidarono 1.200 persone in Israele e ne rapirono 250. Le piazze israeliane ribollono. Nel Paese sempre più lacerato l’unica maggioranza è quella che invoca il ritorno dei 48 ostaggi rimasti, di cui forse venti vivi, e la fine di un’emergenza bellica che mina l’economia e moltiplica i lutti, per quanto la priorità dell’esercito sia quella di risparmiare le vite dei soldati. Eppure quattro di loro sono stati condannati a dieci giorni di carcere per essersi rifiutati di viaggiare su un Humvee non blindato, in pieno giorno, lungo una strada di Gaza ad alto rischio.
Se la pressione internazionale è fortissima sul governo di Tel Aviv, quella interna non lo è meno. Nel testo del documento sbandierato a Washington, al punto 4 è scritto: «Entro 72 ore dalla pubblica accettazione di questo accordo da parte di Israele, tutti gli ostaggi, vivi e deceduti, saranno restituiti». Netanyahu ha fretta di portarli a casa entro il 7. Hamas lo sa bene. E si sarebbe preso ancora «due o tre giorni» (da ieri) per rispondere al piano Trump. Una fonte vicina alla leadership del gruppo ha dichiarato che «vuole modificare alcune clausole, come quella sul disarmo e l’espulsione dei suoi funzionari». Chiedendo «garanzie internazionali» sul fatto che Israele si ritiri dall’enclave e che non ci siano più omicidi all’interno o all’esterno.
Non si tratta di inezie. Tanto più che, sui media israeliani, Netanyahu non fa nulla per nascondere che considera il piano Trump la sua vittoria (lunedì era rimasto tre ore faccia a faccia con il presidente, ottenendo la revisione del testo). Non si stanca di dire che non ci sarà nessuno stato palestinese. «I nostri soldati resteranno a Gaza», ha dichiarato. Del resto, il documento non definisce i tempi del ritiro militare e resta vago su quasi tutti i punti. Un’altra fonte vicina ai negoziati di Doha ha parlato, con l’Afp, di due correnti entro Hamas, riguardo al piano: «La prima sostiene l’approvazione incondizionata, poiché la priorità è un cessate il fuoco. La seconda esprime serie riserve sulle clausole chiave, rifiutando il disarmo e le espulsioni (dei funzionari di Hamas, ndr): è favorevole a un’approvazione condizionata, con chiarimenti che riflettano le richieste di Hamas».
Mentre procede il rimpallo degli ultimatum, delle clausole, delle richieste di integrazioni e modifiche, sul terreno si intensifica la pressione militare sulla “capitale”. Da Gaza City, che dopo il rientro degli sfollati tra febbraio e marzo era tornata a contare un milione di abitanti, sarebbero fuggiti in 750mila. A dare la cifra è l’esercito israeliano. «Questa è l’ultima opportunità per spostarsi a sud e lasciare gli operativi di Hamas isolati – ha intimato il ministro della Difesa, Israel Katz –. Coloro che rimarranno saranno considerati terroristi e sostenitori del terrorismo». Persino la Croce Rossa è dovuta fuggire: «L’intensificarsi delle operazioni militari a Gaza City ha costretto il Comitato internazionale della Croce Rossa a sospendere temporaneamente le operazioni e trasferire il personale negli uffici del sud di Gaza», si legge in una nota. L’Ong Medici senza frontiere aveva fatto lo stesso annuncio nei giorni scorsi. Il percorso è obbligato, a senso unico. Impossibile spostarsi da sud verso Gaza City. L’esercito controlla il Corridoio Netzarim, che taglia l’enclave a est a ovest isolando il settore settentrionale: «Le truppe hanno agito – fa sapere – per interrompere le capacità operative di Hamas nella zona», impedendo a eventuali rinforzi di andare a combattere in città. Dei 61 palestinesi uccisi martedì nell’enclave, 44 sono deceduti a Gaza City. Secondo fonti mediche citate da al-Jazeera, il bilancio complessivo sarebbe di 66.148 morti e 168.716 feriti. Di questi, 2.580 sarebbero vittime delle stragi del pane e almeno 18.930 feriti mentre cercavano di ottenere aiuti umanitari.
A proposito di cifre e dati, il Times of Israel ha rivelato quelli del Progetto Esther, una campagna condotta da influencer filoisraeliani negli Stati Uniti. Netanyahu ne aveva incontrati alcuni venerdì scorso, a New York. Documenti del Dipartimento di Giustizia americano dimostrano che Tel Aviv ha incaricato l’azienda Bridges Partners – fondata lo scorso giugno in Delaware – di reclutare e coordinare influencer negli Stati Uniti. Il contratto è da 900mila dollari, con prezzario dettagliato: 200mila per cominciare, 60mila per il reclutamento, 140mila quando i primi cinque o sei influencer cominciano a postare, fino a 250mila mensili per retribuire gli influencer e coprire i costi di produzione e di agenzia. Il contratto prevede dai 25 ai 30 contenuti al mese postati su Instagram, TikTok e altri social da parte di tre-sei influencer alla volta. L’ottavo fronte di guerra, avrebbero commentato – scrive il Times – alti funzionari israeliani.
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