«Gli Houthi sfruttano l'odio per Israele degli yemeniti sotto i missili»

Dieci anni di conflitto interno hanno compattato un’élite di signori della guerra che si mantiene al potere grazie ai nemici esterni. Dopo ogni raid le piazze di Sanaa si riempiono di slogan violenti
May 29, 2025
«Gli Houthi sfruttano l'odio per Israele degli yemeniti sotto i missili»
Ansa | Un aereo distrutto all'aeroporto internazionale della capitale dello Yemen, Sanaa, all'indomani del raid israeliano del 28 maggio
L’attesa inizia la sera, ogni sera. Roqia abu-Taleb, insegnante di inglese a Sanaa da più di dieci anni, inizia ad attaccarsi al cellulare e scrollare gli alert che il governo della milizia Houthi nel nord dello Yemen manda ai cittadini. Qualche notte fa è arrivato questo: «Attenzione: nelle prossime ore l’esercito yemenita inizierà le operazioni militari, colpendo l’aeroporto di Ben Gurion a Tel Aviv e i dintorni di altri aeroporti sionisti. Questa è la risposta dovuta all’escalation sionista contro la Striscia di Gaza e all’aggressione allo Yemen». Roqia ce lo mostra finché la rete wi-fi sostiene la chiamata su Google Meet e sospira sconfortata: «Ci aspettano di certo bombardamenti israeliani domani notte». Come infatti è avvenuto. Nella notte fra martedì e mercoledì, sono piovuti missili sull’aeroporto di Sanaa.
Roqia abita in un quartiere della capitale che è stato colpito quasi un mese fa anche dai raid americani: intorno abitano alcuni quadri minori della milizia, dunque ha qualche legittima preoccupazione che anche la sua abitazione possa rientrare nei «danni collaterali», con chiunque vi si trovi dentro, lei compresa. E non vede l’ora che la guerra finisca, nonostante non abbia visto di cattivo occhio l’ascesa della milizia filo-iraniana dieci anni fa: «Alla fine, qui al nord ci hanno dato sicurezza e stabilità. Prima del 2015 a Sanaa c’erano attentati di al-Qaeda ogni settimana».
Dagli attentati ai bombardamenti, non è che le cose siano migliorate parecchio. Anzi. Nelle settimane precedenti, i raid americani si sono spinti fino al limitare della città vecchia, patrimonio dell’Unesco, nell’area del mercato di al-Shuk. Di notte, tra i soccorritori, mentre i padri raspavano i calcinacci con le unghie nel disperato tentativo di liberare dalle macerie i corpi di donne e bambini intrappolati (undici morti di cui otto minorenni solo in quell’attacco), i residenti si scagliavano contro i governi americano e israeliano davanti alle telecamere del canale locale, al-Masirah: «Siamo carne da macello, qui come a Gaza. Questi governi sionisti sono dei cani, che siano maledetti. Ma almeno noi yemeniti siamo gli unici ad avere avuto il coraggio di difendere i palestinesi».
Il sentimento anti-americano in Yemen non è una novità. Dalla fine degli anni Novanta, ossia da quando il presidente Ali Abdullah Saleh accettò – costretto dai Saud – di voltare le spalle a Saddam Hussein e offrì il fianco all’intelligence americana, si mise il nemico in casa: dando il permesso ai droni americani Reaper di sorvolare pesantemente i cieli del Nord in cerca di qaedisti, e tollerando le stragi a matrimoni e funerali pur di uccidere il target prescelto, favorì una crescente avversione popolare nei confronti di Washington. A poco sono valse le borse di studio statali per prestigiosi college americani offerte nelle scuole superiori dello Yemen: chi allora è riuscito ad avvantaggiarsene, è entrato nelle élite dei Fratelli musulmani che hanno poi tentato di traghettare il Paese a nuova costituzione durante gli anni della rivoluzione del 2011. Ma questo soffitto di cristallo elitario non è mai stato sfondato da una larghissima fetta della popolazione rurale che non si riconosceva nelle prime due classi sociali in cui è divisa la società yemenita del Nord: gli hashemiti (che nei periodi ottomano e dell’imamato hanno sempre detenuto il potere giuridico, religioso, politico) e i ghabili (una classe media mobile, dinamica, di commercianti e professionisti, che ha migliorato la sua condizione anche ricoprendo ruoli ministeriali, amministrativi e politici). Adesso, ogni minimo benessere è stato spazzato via da dieci anni di guerra e dal compattamento di una élite di signori della guerra che devono alla creazione e al mantenimento dei nemici esterni la garanzia della loro stabilità.
Solo questo pragmatismo materiale può spiegare la scelta degli Houthi di negoziare con Donald Trump il cessate il fuoco sul Mar Rosso, raggiunto dagli omaniti, assoluta garanzia di mediazione nel Golfo tra i Paesi sunniti con i loro alleati occidentali da una parte e l’Iran e i suoi proxy del cosiddetto Asse della resistenza dall’altra. Per gli Houthi, questa è un’altra vittoria diplomatica: tenendo tesa la corda sullo stretto di Baab al-Mandab, hanno ingigantito la loro reputazione e popolarità, anche presso quella parte dell’opinione pubblica occidentale indignata per l’andamento della guerra a Gaza; si sono garantiti il ruolo di milizia filo-iraniana sopravvissuta alla decimazione delle altre e adesso primaria; hanno rinegoziato il favore morale dei sauditi; infine, hanno conservato una certa autonomia decisionale rispetto a Teheran, che fa loro pressioni per non esagerare con gli Stati Uniti ma spinge affinché mantengano il punto di guerra con Israele.
Così facendo, i dirigenti di Ansarullah hanno scongiurato un altro rischio: un’invasione di terra del Nord Yemen da sud, caldeggiata dal falco dell’amministrazione Trump, Mike Waltz, poi destituito dal suo ruolo di consigliere per la sicurezza nazionale dopo avere avviato una parte minimale di dispiegamento di unità sceltissime, operazione vista con favore dalle milizie filo-emiratine del Sud dello Yemen, Abu Dhabi compresa. Trump ha deciso che non se ne fa nulla: troppo rischioso per i contractor americani e troppo impopolare per il suo elettorato, soprattutto dopo che sauditi e qatarioti hanno scambiato jumbo jet per stabilità. Tra Medio Oriente e Golfo, resta in piedi l’ingovernabile variabile a due teste: da un lato Israele, dall’altra gli Houthi. Le parole di Mahdi al-Mashat, presidente del Consiglio politico supremo a Sanaa, prima di inviare missili sull’aeroporto di Tel Aviv, non fanno ben sperare: «Mi rivolgo a tutti i sionisti in Israele da adesso in poi: state nei rifugi o lasciate il vostro Paese, perché il vostro governo fallimentare, prima o poi, non sarà in grado di proteggervi».

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