E se la risposta di Trump alla tela di Pechino fosse la libertà dei popoli?

Dalla parata impressionante (sotto diversi punti di vista) svoltasi in Cina arrivano messaggi apparentemente contraddittori. Da leggere con attenzione per capirne la sottile trama unificante
September 3, 2025
E se la risposta di Trump alla tela di Pechino fosse la libertà dei popoli?
TASS / fotogramma.it | I presidenti russo Vladimir Putin, cinese Xi Jinping e nordcoreano Kim Jong-un a Pechino
I missili minacciosi che sfilano e le colombe della pace liberate in cielo. L’auspicio di un nuovo ordine mondiale multipolare, ma sul palco leader che stimano il rispetto della sovranità altrui e dei diritti umani in patria assai meno della propria politica di potenza. Dalla parata impressionante (sotto diversi punti di vista) svoltasi ieri a Pechino arrivano messaggi apparentemente contraddittori. Da leggere con attenzione per capirne la sottile trama unificante. Di certo, c’è un vincitore: il presidente cinese Xi Jinping, non solo padrone di casa, ma alfiere indiscusso del tentativo di trasformare i rapporti di forza globali. Non ha avuto esitazione a farsi scattare una storica foto di gruppo con Vladimir Putin e Kim Jong-un, compagni del tutto “impresentabili” in Occidente.
Secondo alcuni analisti, un esplicito messaggio a Donald Trump: se l'America dovesse davvero sfidarli, sarebbe chiamata a combatterli contemporaneamente su diversi potenziali teatri: lo stretto di Taiwan, l'Ucraina e la penisola coreana. Difficile uscirne trionfatori. È opinione diffusa che l'Esercito Popolare di Liberazione abbia raggiunto, negli ultimi dieci anni, un progresso in campo tecnologico militare tale da sopravanzare in alcuni settori le stesse forze armate Usa. I vettori di testate convenzionali e atomiche che viaggiano a una velocità cinque volte superiore a quella del suono visti alla sfilata sono uno degli ambiti in cui la Cina ha acquisito un vantaggio competitivo.
L’esibizione muscolare sotto gli occhi del mondo ha mostrato strumenti d’offesa avanzatissimi guidati dall’intelligenza artificiale. La capacità produttiva del Dragone è poi immensa, il rigido verticismo decisionale permette di mobilitare la macchina bellica in tempi rapidi e senza defezioni, a differenza delle difficoltà che sta incontrando il riarmo europeo. Xi punta a riconquistare Taiwan: il massiccio arsenale non serve per piegare la piccola isola ma per scoraggiare interferenze esterne. Xi non ha nemmeno fretta. La sua presa sul Paese non è e non sarà in discussione, così come quella dei suoi due colleghi, dato che non sono contemplati corpi elettorali volubili che possano liberamente decidere del loro futuro come numeri uno. E gli autocrati sognano anche la quasi immortalità fisica, come sembrerebbe dalle parole captate da un microfono aperto a proposito del sogno di vivere fino a 150 grazie ai trapianti d’organo.
La Cina sempre più forte anche militarmente – sebbene rimangano dubbi sulla reale efficienza di un esercito da decenni mai impegnato sul campo (i “fallimenti” russi insegnano) – ha voluto mandare un messaggio fatto di deterrenza e “memoria”, nello stile della millenaria cultura nazionale. Il discorso sui grandi scenari e l’insistenza sulla capitolazione del Giappone nell’80° anniversario sono serviti a offrire una narrazione complessivamente alternativa a quella occidentale. A partire dalla ricostruzione storica, che enfatizza i meriti di Pechino nella sconfitta in Asia dell’Asse Tokyo-Berlino ben al di là degli accadimenti reali.
La nuova superpotenza che sottolinea con orgoglio il ruolo centrale del Partito comunista si candida a essere il polo catalizzatore di un fronte largo ed eterogeneo, quello che era riunito nei giorni scorsi a Tianjin per il vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco). Si tratta di una sfida sistemica. Pechino ha proposto una prospettiva di governance “anti-egemonica”, con strumenti che vanno da una banca di sviluppo della Sco a un centro per la ricerca condivisa sull’IA, tutti strumenti per rendere più concreta una rete che si allontani dal blocco euro-americano. Non bisogna, tuttavia, sopravvalutare le mosse di oggi. Non siamo di fronte a un nuovo Patto di Varsavia. Si allarga l’“axis of upheaval” (del sovvertimento o del caos, come lo si chiama), ma rimane una coalizione eterogenea (c’è anche l’India democratica, che aspira a un proprio ruolo autonomo: senza i dazi di Trump forse Modi sarebbe più restio a riavvicinarsi al rivale Xi).
In ogni caso, la Cina non cerca impegni formali di alleanza, che la potrebbero esporre a sanzioni ed extracosti. La tela di Pechino è fatta di convergenze opportunistiche, sapendo che tutti i partner hanno più da chiedere che da offrire. La Casa Bianca assiste, deplora quelle che definisce minacce, eppure non ha una strategia. Mantiene una superiorità che si va assottigliando e che sul lungo termine potrà mantenere soltanto “esportando” la democrazia al Cremlino e nella Città proibita e ridando la parola ai popoli liberi. Un bel paradosso per un Donald Trump che ammira gli uomini forti, gioca con l’autoritarismo e ora si trova di fronte due agguerriti sfidanti settantenni, determinati a restare sulla plancia di comando per almeno altro mezzo secolo.

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