Confini, tempi, ostaggi: tutti i punti critici della “pax americana” a Gaza

Ancora possibili trappole e dettagli nascosti. Dal ruolo di Blair a Trump che promette «pace eterna in Medioriente», ecco cosa può succedere
September 30, 2025
Confini, tempi, ostaggi: tutti i punti critici della “pax americana” a Gaza
Quando a Washington si lavorava al piano per Gaza riesumando una vecchia proposta dell’amministrazione Biden, a Gerusalemme il presidente israeliano Herzog provava ad allettare Netanyahu con un argomento perennemente incombente. «Valuterò ciò che è meglio per lo Stato e tutte le altre considerazioni», ha dichiarato il capo dello stato alludendo alla possibilità di concedere la “grazia” al plurindagato capo del governo.
Non ci fosse stato di mezzo il peggiore dei crimini di Hamas in quel 7 ottobre 2023 e la mattanza ordinata dal governo di Tel Aviv sulla Striscia, il processo al primo ministro per tre casi di corruzione si sarebbe già chiuso, e senza la certezza di scampare al carcere in caso di condanna. Ma un po’ le emergenze belliche e un po’ la coincidenza con esami medici proprio nei giorni delle udienze, Netanyahu ha beneficiato di una serie di rinvii. «Il caso pesa molto sulla società israeliana. Se ci sarà una richiesta o un procedimento, lo renderò pubblico con la massima trasparenza», ha ribadito Herzog.
A questo punto c’è solo da trovare una via d’uscita per Gaza. Donald Trump si è assicurato lunedì il sostegno del primo ministro israeliano per una proposta di pace sponsorizzata dagli Stati Uniti, concedendo ad Hamas la penultima parola. L’ultima spetta sempre ai repentini e oramai consueti cambi di opinione un momento prima di firmare. E non sempre per colpa del solo gruppo fondamentalista. La Casa Bianca ha pubblicato un documento in 20 punti: dal cessate il fuoco immediato, a uno scambio di ostaggi e detenuti palestinesi in 72 ore dalla firma, seguito da un ritiro graduale di Israele da Gaza, il disarmo di Hamas e un governo di transizione guidato da un organismo internazionale coordinato dall’ex premier britannico Tony Blair.
Non è ancora chiaro se l'amministrazione Trump e Israele abbiano superato le loro divergenze, a cominciare dal riconoscimmento dello Stato di Palestina, preceduto da un ruolo dell'Autorità nazionale palestinese nella governance postbellica dell'enclave. Trump ha ringraziato Netanyahu «per aver accettato il piano e per aver creduto che, lavorando insieme, potremo porre fine alla morte e la distruzione che abbiamo visto per così tanti anni, decenni, persino secoli». L’immancabile riferimento a se stesso come a un personaggio che nulla può invidiare ai grando che lo hanno preceduto, in realtà viene visto da alcune fonti palestinesi come una opportunità: «Trump crede di poter passare alla Storia come uomo di pace, ma avrà bisogno anche di noi e se noi lo accontenteremo a quel punto l’unico ostacolo ai sogni di Trump sarà Netanyahu, più ancora di Hamas», commenta con “Avvenire” una fonte della leadership palestinese a Ramallah. Astuzie e trappole sono il grande timore di tutti i protagonisti. «Sostengo il vostro piano per porre fine alla guerra a Gaza, che raggiunge i nostri obiettivi di guerra», ha non a caso reagito il premier israeliano.
L'assenza del gruppo armato dai negoziati e i suoi precedenti e reiterati rifiuti di disarmarsi continuano a sollevare molti dubbi. I miliziani hanno ancora in ostaggio 48 persone, 20 delle quali ancora in vita. Un funzionario arabo vicino ai colloqui ha spiegato all’agenzia ”Reuters” che il Qatar e l'Egitto hanno condiviso il documento americano con Hamas. L’offerta è di quelle che mette seriamente in difficoltà le fazioni armate. Il «Piano comprensivo per la fine del conflitto a Gaza» come parte di un progetto Usa per una «pace eterna in Medio Oriente», prevede la liberazione degli ostaggi vivi e la consegna dei resti di quelli uccisi dalla prigionia entro 72 ore dal momento in cui la proposta verrà ufficialmente accettata. In cambio Israele si impegna a rilasciare contestualmente 250 detenuti palestinesi condannati all'ergastolo e 1.700 persone arrestate nella Striscia di Gaza dopo l'attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Durante questa fase, tutte le operazioni militari israeliane verranno sospese e le linee di combattimento congelate fino al completamento della fase di ritiro programmato.
Il piano stabilisce che i membri di Hamas che accetteranno la coesistenza pacifica e la smilitarizzazione potranno beneficiare dell'amnistia (non è chiaro se potranno restare a Gaza o dovranno essere mandati in esilio), mentre chi desidera lasciare Gaza potrà farlo «in sicurezza». Israele, pur garantendo un ritiro graduale, non occuperà né annetterà il territorio e nessuno dei civili sopravvissuti alla guerra sarà costretto a emigrare se non lo vorrà.
Come spesso accade quando di mezzo ci sono negoziati ad alta tensione, sono i dettagli operativi a determinare le possibilità di successo. Condizioni che al momento restano molto vaghe: non sono indicate con la necessaria precisione cartografica le progressive linee di arretramento israeliano, né le modalità per il rilascio degli ostaggi, né i criteri per la selezione dei prigionieri palestinesi da rilasciare e meno che mai i tempi per il passaggio del controllo a Gaza alla Autorità Palestinese. Non necessariamente questa è una cattiva notizia. Le smagliature lasciano ad Hamas la possibilità di trattare su vari punti, tuttavia con il rischio che un solo cavillo possa essere utilizzato da una delle due parti per far saltare ancora una volta il tavolo, e accusare la controparte di aver vanificato la «pace eterna per il Medioriente» a cui anela Donald Trump.
Israele dovrà digerire alcuni bocconi amari. Un rafforzamento dell’autorità palestinese significa rinunciare all’annessione della Cisgiordania, ma neanche questo è messo nero su bianco. E poi c’è il capitolo assistenza umanitaria, che sarà incrementata e gestita tramite Nazioni Unite, Croce Rossa e altre organizzazioni internazionali indipendenti dalle parti in conflitto. Tutti protagonisti che il governo Netanyahu accusa da due anni di essere complici di Hamas. A guidare la transizione secondo il piano sarà una vecchia conoscenza del Medio Oriente, quel Tony Blair cui si devono dalle Guerre del Golfo in poi non ha lasciato un buon ricordo del suo passaggio nelle terre della Mezzaluna. Questo organismo dovrà coordinare la ricostruzione di Gaza (non si sa ancora che posto avranno i progetti immobiliaristici della "Riviera" preconizzata dal tycoon) in vista di un trasferimento dei poteri all'Autorità Palestinese, chiamata a riforme preliminari di cui non è indicata una scadenza né gli Usa si impegnano a un futuro riconoscimento dello Stato di Palestina. Ambiguità che potrebbero voler indicare l’intenzione di lasciare senza scadenza il comitato tecnocratico che dovrebbe gestire la transizione. E che Hamas non farà leva su queste deliberate lacune per guadagnare tempo e ottenere maggiori vantaggi, a questo punto non è solo una ipotesi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA