Alla fine Trump attaccherà Maduro (e il fentanyl non c'entra nulla)
Spostata la portaerei in prossimità del bersaglio, ormai chiaro: il Venezuela. Ma Caracas è solo una tappa per rimettere piede nel Giardino di casa Usa: l'America Latina. La strategia Usa spiegata

Otto paci e una guerra. Trump “il pacificatore” – non si stanca di ripeterlo – ha messo fine ai conflitti nei punti più cruenti del globo, dal Congo a Gaza. Tanto da meritare il Nobel – precisa con una buona dose di stizza –, scippatogli alla fine «per ragioni politiche». Nel suo Continente, però, lo stesso presidente ha deciso di avviare un conflitto di intensità inedita. Una sorta di “nuova guerra dell’oppio” – o meglio, del Fentanyl –: nel mirino formalmente ci sono i narcos, «il Daesh dell’Occidente», «terroristi ansiosi di avvelenare i cittadini statunitensi». In gioco, tuttavia, c’è molto di più. La riconquista dell’egemonia perduta a Sud del Rio Bravo – il vecchio “Giardino di casa” – nei decenni post-Guerra fredda quando la Casa Bianca s’è lasciata distrarre da altri scenari, dal Medio Oriente all’Ucraina. Nonché, soprattutto, tanti buoni affari. Incluso il “business dei business” secondo The Donald: lo sfruttamento dei minerali critici per la transizione energetica, di cui l’America Latina ospita ingenti riserve. Il “triangolo del litio” è solo una: il Brasile, ad esempio, ha la seconda maggior concentrazione al mondo di terre rare. La “dottrina Monroe 2.0” del tycoon - riadattamento dell’adagio pronunciato dall’allora presidente James Monroe, “L’America agli americani”, presupposto di oltre un secolo di ingerenza Usa nella parte centro-meridionale del Continente – è un mix di nostalgie imperiali, ossessione anticinese – il nemico geostrategico per antonomasia – e tecniche di vendita da immobiliarista navigato. A cucirle insieme un tratto caratteriale che il presidente ha trasformato in principio guida dell’azione politica: l’imprevedibilità. “Madman theory”, la teoria del matto, la chiamano i politologi: un leader riesce a convincere gli avversari di essere capace di qualunque cosa, esercitando nei loro confronti una forma importante di coercizione. Non è la prima volta che un capo della Casa Bianca la adotta. Di nuovo – come per la guerra alla droga, ufficialmente dichiarata nel 1971 – il riferimento è Richard Nixon. Nessuno, però, l’aveva portata all’estremo trumpiano.
Maduro, in cima alla lista
Dopo essere partito d’assalto per la sovranità del Canale di Panama, Trump ha scelto il Venezuela per l’esordio della sua “Dottrina Monroe 2.0”. La prova di forza alle presidenziali di luglio 2024 ha screditato definitivamente Nicolás Maduro agli occhi della comunità internazionale. E, cosa ancora più importante, del resto della regione. Nonostante i distinguo, a parte i fedelissimi quanto ininfluenti Cuba e Nicaragua, il leader progressisti continentali gli hanno voltato le spalle. Nessuno è disposto a esporsi a sua difesa. Washington, dunque, ha ampi margini di manovra. E intende utilizzarli. In quale modo, però, non è dato saperlo. Finora, la Casa Bianca ha agito lungo un doppio binario, risultato anche del braccio di ferro all’interno dell’entourage presidenziale ristretto. Da una parte, il falco Marco Rubio preme per un colpo di mano finalizzato a un cambio di regime. È lui lo stratega degli attacchi nei Caraibi e nel Pacifico, avviati il 2 settembre, contro imbarcazioni accusate di trasportare droga, costati la vita finora a 57 civili senza ulteriori prova. Nonché del dispiegamento massiccio di soldati e portaerei, il via libera alle operazioni della Cina e delle esercitazioni militari. Un’aggressione che, nei piani del segretario di Stato nostalgico dei Neocon, dovrebbe preludere a un intervento per abbattere il «narco-regime» di Maduro, nonostante il ruolo marginale del Venezuela nel traffico di droga. Soprattutto del fentanyl, di cui quest'ultima non produce un grammo. Ed «esportare la democrazia», in stile Iraq e Afghanistan, incluse fantomatiche armi di distruzione di massa. Le dispendiose «guerre eterne» contro le quali Trump si è apertamente scagliato fin dalla campagna per il primo mandato. Gli alleati ultrà, da Laura Lomer all’ex spin-doctor Stephen Bannon, non smettono di ricordaglielo. E sostengono la necessità di negoziare con Maduro per ottenere vantaggi nella produzione di petrolio senza le perdite di un conflitto. Il tycoon non esclude tale opzione. L’inviato speciale Richard Grenwell ha portato avanti per mesi colloqui riservati con i rappresentanti di Caracas, propensi ad aprire a ingenti investimenti Usa in ambito energetico. La trattativa si è interrotta a settembre. Uno stop definitivo che anticipa un’invasione? Con “Madman Trump” non si può mai dire. Già nel 2019, dopo aver appoggiato la proclamazione presidenziale dell’oppositore Juan Guaidó, il leader repubblicano aveva fatto marcia indietro.
Il nemico e l’avversario
Il “pugno di ferro” di Washington si estende ben oltre Caracas. Il Brasile – colpevole di avere consentito ai giudici di perseguire per tentato golpe Jair Bolsonaro – è stato punito con daci extra sulle proprie esportazioni. Nei confronti di Luiz Inácio Lula da Silva, simbolo della sinistra mondiale, tuttavia, Trump nutre una simpatia istintiva, come dimostrano gli elogi all’Assemblea generale e l’incontro «positivo» in Malaysia di questa settimana. Il contrario dell’avversione per il presidente colombiano Gustavo Petro suo nemico personale, come dimostrano le sanzioni comminategli con toni particolarmente aspri . Anche in questo caso, la ragione ufficiale è la droga: Bogotà è accusata di poco impegno nel contrasto alla produzione di coca. Nel 2024, in effetti, si è registrato un incremento record: 2.600 tonnellate, il 53 per cento in più rispetto all’anno scorso. Sono, però, schizzati anche i sequestri: 1.764 tonnellate tra agosto 2022 e novembre 2024. Oltretutto, è il Fentanyl non la cocaina la priorità degli Usa per l’impatto in termini sanitari. E quest’ultimo è appannaggio dei cartelli messicani, i registi del narcotraffico globale.
L’alleata inevitabile
Sinaloa, Jalisco, Familia Michoacana, Golfo e Nord Est: le cinque mafie più potenti che si spartiscono il Paese sulle rive del Rio Bravo, sono state definite «organizzazioni terroristiche». Il Pentagono, dunque, è autorizzato a impiegare la forza nei loro confronti. Finora, però, non l’ha fatto. Né sembra intenzionato a farlo nel prossimo futuro. Al contrario: con la presidente Claudia Sheinbaum – «una persona fantastica», ha detto anche di recente –, i rapporti sono ottimi. Sono politicamente lontani i tempi delle provocazioni virulente del tycoon durante la campagna elettorale. Il Messico, governato dal centro-sinistra, si è dimostrato un partner efficiente nel contenimento della migrazione dal Continente, calata al livello più basso degli ultimi anni. Al contempo, le autorità hanno intensificato le operazioni anti-narcos con 35mila arresti – più del quadruplo rispetto alla precedente Amministrazione di Andrés Manuel López Obrador – e 1.600 laboratori di fentanyl distrutti. Di fatto, poi, retorica a parte, il magnate Trump sa che il Messico è un “alleato inevitabile”: gli scambi commerciali fra i due Paesi, che condividono 3.200 chilometri di confine terrestre, generano 950mila milioni di dollari l’anno. Una cifra irrinunciabile per entrambi.
Gli uomini del presidente
Al “bastone” di dazi, minacce, attacchi armati, sanzioni, The Donald abbina la “carota” di vantaggi, economici in primis. L’ultimo, clamoroso esempio è stato il salvagente da venti miliardi di dollari – più altrettanti in finanziamenti attraverso istituti privati – per “l’amico” argentino Javier Milei, in calo nei sondaggi a causa degli scandali di corruzione e della svalutazione della moneta. Come i due leader hanno riconosciuto, l’aiuto Usa è stato determinante per capovolgere i prognostici della vigilia e consegnare a Milei una «vittoria schiacciante» alle legislative di domenica scorsa. Il leader della Casa Rosada, dunque, può riaccendere la motosega e proseguire con i tagli draconiani nonché con la riforma ultraliberista del mercato del lavoro. Gli Usa, nel frattempo, «hanno guadagnato molti soldi grazie a queste elezioni. I titoli sono aumentati mentre il rischio Paese dovuto all’indebitamento è diminuito», ha commentato il capo della Casa Bianca. Un messaggio ai politici dell’intero Continente: l’appoggio del tycoon conviene, in tanti sensi. Lo sanno bene Nayib Bukele e Daniel Noboa, presidenti millennial di El Salvador e Ecuador, emuli di Trump. La loro “generosità” nel ricevere i migranti espulsi dagli Usa fa sorvolare l’Amministrazione sui metodi sbrigativi adottati nella battaglia al crimine. El Salvador, in particolare, vive in stato d’assedio dall’entrata in carica di Bukele, nel 2019, che l’ha rinnovato 41 volte. Su quasi 89mila arrestati con l’accusa di appartenere a una gang, due terzi sono ancora in attesa di sentenza. Il leader, intanto, ha smantellato il sistema giudiziario e cambiato la Costituzione per potere essere rieletto senza limiti, tanto da aggiudicarsi il titolo di «dittatore cool». Maldicenze infondate, secondo una dichiarazione del dipartimento di Stato. Nel “Giardino di casa”, spesso, a fare a differenza tra regimi e democrazie è il punto di vista. Del Nord.
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