A Gerico c'è un monastero ortodosso nel mirino dei coloni israeliani
di Redazione
San Gerasimo è luogo di pace e convivenza, ma dopo il 7 ottobre il terreno su cui sorge in Cisgiordania è stato sottratto al Patriarcato per la costruzione di nuovi avamposti. Il disappunto di Atene

L’asfalto scende tortuoso e stretto fra le colline, fin quando il deserto non si spalanca, punteggiato di sparsi villaggi e palmizi. La strada entra ed esce dalla chiassosa urbanità di Gerico e s’inoltra verso il confine giordano, già fluttuante nella calura del mattino. Un cartello indica la svolta per il sito del battesimo di Gesù. Pochi chilometri e la cupola d’oro del monastero di San Gerasimo emerge dall’incongrua cornice di alberi, scintilla toccata dal sole.
Tre settimane fa il quotidiano Kathimerini ha raccontato il disappunto del governo di Atene per la sottrazione, a opera dei coloni israeliani, di terreni appartenente in Cisgiordania al Patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme. L’occupazione illegale riguarda in particolare l’area intorno al monastero di San Gerasimo. Le tensioni sarebbero aumentate dopo il 7 ottobre, innescate dalla costruzione di cinque nuovi avamposti. Un incontro di alto livello per discutere il problema si è tenuto ad Atene. Ad attivarsi è stato il ministero degli Esteri, che poco può tuttavia nell’Area C, dove il monastero da 1500 anni poggia le sue fondamenta. Disegnata dagli accordi di Oslo, l’Area C occupa più del 60 percento di tutta la Cisgiordania. Sarebbe dovuta tornare all’amministrazione dell’Autorità Palestinese, diventata Stato, nel 1999. Sono oltre 700mila coloni che la occupano illegalmente.
Non si fa fatica a capire la ragione per cui 26 anni fa, inizialmente come comunità agricola dedita alle sperimentazioni, i coloni di quella che sarebbe diventata Mevo’ot Yericho abbiano scelto di stabilirsi in questo inospitale angolo di deserto, affacciandosi sull’oasi del monastero. Gli alberi rigogliosi, le piante in fiore ricoprono i passaggi che immersi nel silenzio portano alle diverse costruzioni dell’antichissimo complesso, la chiesa con le sue splendide cappelle, il laboratorio di mosaici, la foresteria, l’area ristoro. In un muro del chiostro le foto della storia palestinese, Arafat con Clinton e Rabin. Ma anche la bandiera israeliana fra quelle triangolari che appese a un filo convergono sul campanile.
Un luogo di pace e di convivenza, di meditazione, di anelito mistico dello spirito, che cresce laboriosamente nel tempo, come un frutto nella sabbia. Nell’ombra del negozio di souvenir, tuttavia, uno schermo contiene le immagini delle telecamere puntate su tutti gli ambienti e i confini dell’eden. Abuna Christo, il prete più anziano del monastero, si trova ad Atene. I tre monaci presenti con cortese sospetto si rifiutano di parlare o rimandano al decano assente, irraggiungibile per telefono. A mostrarci Mevo’ot Yericho è Hussam, giovane manutentore musulmano: «Sono qui da molti anni, ma dall’inizio della guerra a Gaza si sono allargati», racconta puntando l’indice su una nuova fila di caravan nel complesso schiacciato dalla luce, duecento metri più in là. «Meglio non avvicinarsi», aggiunge, facendo notare la svettante torretta blindata.
Il confronto, o la lenta erosione, continua a Gerusalemme, dove le autorità israeliane hanno congelato i conti bancari del Patriarcato in risposta al rifiuto di pagare le pesanti tasse imposte dalla municipalità, che contravvengono agli antichi equilibri stabilitisi in Terra Santa. Una decisione che sta creando non pochi problemi nella gestione di tutto il piccolo universo della Chiesa greco-ortodossa. Una violazione del diritto internazionale secondo il ministero degli Esteri Palestinese, il Patriarca Theophilos III e il governo giordano. «Abbiamo chiamato più volte la polizia per denunciare la costruzione dei nuovi avamposti. I poliziotti arrivano e vanno via. Nulla cambia. Si stanno avvicinando, i coloni sono un grande problema, un grande problema», insiste Iusef, giovane gestore dell’area ristoro del monastero. Due famiglie di arabi cristiani di Haifa arrivano allegri con le macchine, apparecchiano una sontuosa colazione, vagano lenti e incantati fra i viali, ripartono. Non sanno nulla dei loro connazionali, trecento metri più in là, fuori dal fresco riparo delle fronde.
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