A Gaza morti più di 200 giornalisti. Raccontare la guerra è difficile

Ogni tre giorni perde la vita un reporter palestinese. Israele ha vietato l'ingresso alla stampa perché sostiene di non poterne garantire l'incolumità. Ma così la verità dei fatti rimane una chimera
June 3, 2025
A Gaza morti più di 200 giornalisti. Raccontare la guerra è difficile
Reuters | Preghiera comune ai funerali delle persone uccise durante la distribuzione di aiuti umanitari a Gaza, nei giorni scorsi
A Gaza i giornalisti vengono uccisi, mentre si tenta di uccidere il giornalismo. Non c’è luogo più importante nel quale bisognerebbe esserci, se ci venisse permesso, perché non c’è posto peggiore per fare il reporter: più di 200 quelli uccisi in poco più di 600 giorni. Tutti palestinesi. Per fare una media: uno ogni tre giorni.
Ai giornalisti internazionali continua a non essere consentito l’ingresso nella Striscia, neanche in aree circoscritte, e ogni cronaca risente di un limite, che somiglia sempre di più a un’arma non convenzionale. Le versioni dei fatti si scontrano, e le fonti di prova a nostra disposizione non sono equiparabili a quelle di una testimonianza diretta, corroborata dai riscontri tipici dei pool di esperti cronisti dislocati nelle aree di crisi, che di frequente cooperano tra loro per mettere insieme i tasselli raccolti. Anche quando le prove ci sono, queste arrivano spesso dagli operatori umanitari sul campo e dai giornalisti palestinesi, perciò liquidate da Tel Aviv come frutto di manipolazione che avrebbe un solo scopo: screditare Israele.
Come in ogni luogo del pianeta anche a Gaza ci sono cronisti asserviti, altri impauriti, altri ancora integri fino al punto di mettere nel conto il “fuoco amico”. Nelle scorse settimane “Reporter Senza Frontiere" (Rsf) ha registrato le minacce di cui sono stati oggetto molti cronisti palestinesi a Gaza. «I centri di detenzione e gli uffici amministrativi a Gaza sono stati distrutti – ha raccontato uno dei reporter nel mirino dei fondamentalisti – quindi il loro metodo di intimidazione ora consiste in attacchi diretti ai giornalisti, che non hanno più dove andare».
Le autorità israeliane sostengono di non potere consentire l’accesso alla stampa perché non è possibile garantire la nostra incolumità sul terreno. In realtà, non competerebbe a Tel Aviv questo genere di valutazione. Israele dovrebbe consentire ai reporter il semplice accesso nella Striscia attraverso i varchi nella muraglia di cemento armato. Il resto dipenderebbe anche dalle autorità di Gaza (non del tutto fuori gioco) e dall’Autorità nazionale palestinese. La scritta “press” sui giubbetti antiproiettile dovrebbe poi assicurare che nessuno spari addosso a chi la indossa, come invece è accaduto molte volte anche in Cisgiordania. Non avere ficcanaso tra i piedi, alla fine conviene a tutti, da un parte e dell’altra.
Il Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, nate dopo i grandi crimini della Seconda guerra mondiale, dedica un capitolo ai corrispondenti di guerra. «I giornalisti che svolgono missioni professionali pericolose nelle zone di conflitto armato saranno considerati come persone civili», pertanto «essi saranno protetti in quanto tali conformemente alle Convenzioni e al presente Protocollo, a condizione che si astengano da qualsiasi azione ledente il loro statuto di persone civili, e senza pregiudizio del diritto dei corrispondenti di guerra accreditati presso le forze armate», aggiunge tra l’altro la norma. Insomma, se chi indossa la pettorina da giornalista viene poi sorpreso a imbracciare le armi, la protezione decade, non quando ha in mano un taccuino o un apparecchio fotografico. Da nessuna parte le Convenzioni incentivano i divieti di Stato imposti ai giornalisti.
Perciò a Gaza non si stanno commettendo solo crimini di guerra (per i quali sono indagati dalla Corte penale internazionale sia Israele che Hamas) ma anche il tentato e finora parzialmente riuscito «crimine del silenzio».

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