A Gaza è dramma senza fine (tra nuove stragi e perplessità)
Altri 36 morti per gli spari a un centro di distribuzione degli aiuti. Traballa la nuova tregua in Siria. Il cardinale Parolin: legittimo dubitare che il raid alla chiesa sia stato un errore

Sameer al-Boji si solleva la maglietta mentre la donna, accanto a lui, svuota lo zaino. «Non abbiamo armi, pistole, coltelli, niente. Allora, perché? Perché ci hanno sparato addosso da un tank?». La domanda diventa un grido mentre il giovane indica i cadaveri stesi su al-Teena street. «Questo è Fayez, là c’è Ahmed, Mohammed. Che cosa facevano di male? Volevano solo prendere qualcosa per sfamare i figli». Non hanno potuto farli. Il fuoco esploso dall’esercito israeliano li ha colpiti mentre, all’alba di ieri, cercavano di avvicinarsi a uno dei centri di distribuzione degli aiuti della Gaza humanitarian foundation (Ghf) a Rafah. In 36 – secondo le autorità sanitarie locali, controllate da Hamas – sono stati uccisi un chilometro prima di raggiungere la struttura. L’ennesima strage del pane che ormai si susseguono a ritmo quotidiano nella Striscia. Le forze armate di Tel Aviv hanno detto di avere sparato contro un gruppo di sospetti che ha rifiutato di fermarsi all’alt. Oltretutto – hanno precisato – il compound di Ghf non era in quel momento in funzione. Simile la versione fornita da quest’ultima: il presunto incidente sarebbe avvenuto ore prima dell’apertura e a diversi chilometri di distanza dalla struttura. «Abbiamo più volte avvertito le persone di non viaggiare di notte o al mattino presto», si legge nel comunicato che termina con un duro je accuse all’Onu: «Dov’è? Trovi un modo per portare il cibo ai gazawi o si faccia affiancare da noi».
Le Nazioni Unite, in realtà, cercano di distribuire i soccorsi di cui Israele autorizza l'entrata. Sia nel nord, dove sono le uniche ad operare insieme ad alcune organizzazioni umanitarie, sia nel Sud, in cui ci sono i quattro compound di Ghf. L’Onu opera in modo parallelo a questi ultimi e con un metodo di lavoro opposto. Moltiplica, cioè, i punti di distribuzione in modo da evitare spostamenti ai civili in un teatro ad alto rischio. Il contrario della fondazione che ha concentrato l’attività in quattro siti blindati e presidiati da contractor armati. Per raggiungerli, i gazawi devono percorrere lunghi tratti a piedi o in carretto, gli unici mezzi di trasporto disponibili, e attraversare zone di combattimento. Oltretutto, la mancanza di informazioni e orari fissi, spinge le persone a stare nei paraggi dei centri dalla notte, in attesa. Condizioni che spiegano perché, nelle settimane successive al 26 maggio – quando ha cominciato le attività –, l’Onu ha registrato già 865 vittime in prossimità delle strutture, a cui si sommano i morti nei combattimenti per un totale di quasi 59mila uccisi, oltre un centinaio nelle ultime 24 ore, sempre in base a fonti palestinesi.
«Inutile strage di innocenti» l’ha definita papa Leone nella chiamata al cardinale Pierbattista Pizzaballa dopo l’attacco di giovedì alla parrocchia della Sacra Famiglia di Gaza City dove il patriarca resterà fino ad oggi, in segno di solidarietà. Tre dei 541 profughi rifugiati da oltre ventidue mesi all’interno del complesso, sono stati uccisi, dieci sono stati feriti, tre in modo grave. Tra questi ultimi, Suhail abu Dawod, giovane collaboratore dell’Osservatore romano, su cui tiene la rubrica settimanale “Vi scrivo da Gaza”. Dopo vari interventi, il 21enne è stato ricoverato nell’ospedale di Ashdod, nel sud di Israele, dove è stato trasportato d’urgenza grazie all'azione del Patriarcato latino di Gerusalemme. Il premier Benjamin Netanyahu ha telefonato al Pontefice per esprimergli dispiacere per «l’incidente causato da un proiettile vagante». In realtà, la dinamica e le ragioni del raid non sono chiare. Il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, ha sottolineato: «Ci dicano effettivamente cosa è accaduto: se è stato veramente un errore, cosa di cui si può legittimamente dubitare, o se c’è stata una volontà di colpire direttamente una chiesa cristiana». L’aggressione alla Sacra Famiglia è avvenuta, oltretutto, dopo settimane di ripetute incursioni dei coloni nel villaggio cristiano di Taybeh, in Cisgiordania. Case, auto e perfino una chiesa sono stati incendiati. «Un crimine contro l’umanità e contro Dio», l’ha definito l’ambasciatore Usa in Israele, Mike Huckbee, che si è recato ieri in visita alla comunità.
Un’affermazione insolitamente forte da parte di Huckbee, pastore battista ultraconservatore, vicino al movimento dei coloni. Anche negli Stati Uniti, alleati storici di Tel Aviv, l’attuale escalation e la mancata tregua iniziano a causare malumore. Il presidente, Donald Trump, minimizza e sottolinea i passi avanti nei colloqui in atto a Doha. «Abbiamo recuperato la maggior parte degli ostaggi. A breve ne arriveranno altri dieci», ha detto il tycoon in un incontro con i parlamentari repubblicani alla Casa Bianca. Il leader ha anche parlato del cessate il fuoco nel sud della Siria annunciato nella notte tra venerdì e sabato dall’inviato Usa Tom Barrak, dopo giorni di violenze a Sweida, raccoforte dei drusi. Di fronte agli ultimi e i beduini in atto da domenica, gli eserciti di Tel Aviv e Damasco hanno deciso di intervenire. Il primo con il pretesto di proteggere la minoranza, il secondo con quello di riportare l’ordine. Almeno mille persone sono morte nei combattimenti secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani. Con la mediazione dei Paesi arabi e degli Stati Uniti, s’è raggiunto un accordo che consente il dispiegamento delle forze armate di Damasco nella regione, mentre il presidente Ahmed al-Sharaa ha promesso di proteggere le minoranze. Impegno a cui Israele non crede a giudicare dalle accuse del ministro degli Esteri, Gideon Saar. Appena raggiunta la tregua – sottolineata con enfasi da Trump – già vacilla: ieri ci sono stati altri scontri. E l’accordo di Doha ancora non arriva.
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