giovedì 20 gennaio 2022
Il dottor Jennings Simões ha vaccinato l'indigeno Tawy che ha portato il padre sulle spalle per ore nella foresta per farlo immunizzare. «La prima fiala l'ho fatta iniettare su di me da un nativo»
Il dottor Eric Jennings Simões mentre viene vaccinato dall'indigeno Hun

Il dottor Eric Jennings Simões mentre viene vaccinato dall'indigeno Hun - Eric Jennings Simões

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«Sì la foto “dell’Enea d’Amazzonia” è autentica. Posso dirlo con certezza, l’ho fatta io». Eric Jennings Simões è l’autore dello scatto – ormai celebre nel mondo, Italia inclusa – dell’indigeno Tawy, ritratto dopo aver camminato ore nella foresta con il padre disabile Wahu sulle spalle per raggiungere l’équipe impegnata nelle vaccinazioni. A guidare la squadra sanitaria era proprio il dottor Jennings Simões, neurochirurgo dell’Hospital regional de Baixo Amazonas di Santarém e medico della Segreteria di salute indigena (Sesai), con vent’anni di esperienza di lavoro con i popoli della foresta.

Tawy ha camminato per ore con il padre sulle spalle per farlo vaccinare

Tawy ha camminato per ore con il padre sulle spalle per farlo vaccinare - Eric Jennings Simões


«È accaduto quasi un anno fa ma me lo ricordo perfettamente. Come dimenticare quel 22 gennaio 2021? Eravamo arrivati in prossimità del territorio dei nativi Zó’é il giorno prima. Ero molto emozionato. Dopo infiniti mesi di attesa, morte e disperazione, finalmente il vaccino era disponibile. Non mi sembrava vero di poterlo portare agli indigeni, tanto provati dalla pandemia a causa della loro fragilità di fronte al virus, delle scarse risorse sanitarie e del rischio, concreto, soprattutto per le etnie più piccole come gli Zó’è – 325 in totale – di essere letteralmente spazzate via dal Covid. Oltretutto, la malattia accaniva sugli anziani, uccidendo insieme a loro la memoria ancestrale delle comunità. Il vaccino era una luce. Per suggellare il momento, ho deciso che la prima dose sarebbe stata impiegata su di me. E che ad iniettarmela fosse Hun, la persona del popolo Zó’è appositamente formata», racconta Jennings Simões, che iniziato a lavorare con questa etnia del Pará nel 2000. Solo una quindicina di anni prima, gli Zó’é erano entrati in contatto con il resto della società brasiliana, mantenendo, però, da quest’ultima una cauta distanza. I rapporti con gli operatori di salute sono, però, consolidati.
«Utilizzano la medicina tradizionale ma sanno che su alcune malattie non ha effetto. Per questo, accettano il nostro aiuto. Hanno sperimentato che possono fidarsi. Sono andato da loro, la prima volta, nel 2002, per curare un ferito dopo che un piccolo velivolo, quelli utilizzati di norma per spostarsi in Amazzonia, era precipitato sulla comunità. La cura per la natura e gli altri esponenti della comunità mi hanno conquistato. E ho deciso di curare la loro salute, prima come volontario, per tre anni, poi come medico della Sesai». In quest’ambito, Jennings Simões ha portato avanti il piano di vaccinazioni standard, previste dal sistema sanitario nazionale. «Quando siamo arrivati con il Coronavac, il vaccino disponibile in quel momento per il Covid, non si sono, dunque, stupiti. Li abbiamo avvertiti via radio – il sistema normalmente impiegato per le comunicazioni date le distanze – e nessuno ha fatto resistenza. Con altri popoli, bersagliati di “fake news”, come i Kayapó, i Suruní e i Mundurukú, è stato più complicato. Spesso le notizie false fanno più danni del Covid... Gli Zo’é, che si erano autoisolati fin dall’inizio della pandemia, ci hanno solo chiesto di non entrare nei villaggi per non trasformarci in agenti di contagio, Ci siamo fermati ai margini del loro territorio e e ci hanno raggiunti, a turno, camminando nella foresta». Il 22 gennaio, quello successivo all’inizio delle operazioni, è arrivato Tawy, con il padre disabile sulle spalle.
«Il suo gesto mi ha commosso, per questo l’ho fotografato. L’ho fatto per me, non pensavo di diffonderla. Poi, però, all’inizio di quest’anno, ho pensato che l’immagine di Tawy potesse infondere un po’ di speranza durante questa nuova ondata. E, così, l’ho pubblicata su Instagram». Immediatamente, il profilo del medico è stato tempestato di critiche e di intenti, più o meno maldestri, di mettere in dubbio la veridicità della storia. «Hanno detto di tutto: che era uno scatto del 2015, che la vicenda era inventata… Fake news… Oltretutto l’intera équipe può confermarlo. Il 22 gennaio dello scorso anno ho iniettato la prima dose a Tawy e a Wahu. La seconda fiala l’hanno fatta il 14 febbraio. Della terza non ricordo più la data… So, invece, che tutti gli Zó’é sopra gli 11 anni sono stati immunizzati e nessuno ha avuto effetti collaterali o disturbi collegati al farmaco. Non hanno nemmeno contratto il Covid. Wahu è morto a settembre per via del disturbo alle vie urinarie di cui soffriva da tempo. Tawy sta bene e dovrei rivederlo nelle prossime settimane».

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