mercoledì 15 agosto 2018
Melanie Hoyt, neo-mamma di due fratellini che erano stati presi e poi non più voluti, collabora con uno studio di avvocati dell’Illinois per portare il fenomeno all’attenzione dell’autorità
La battaglia dei genitori adottivi per fermare il «mercato dei bimbi»
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Sono passati quasi dieci anni dalla prima volta che Melanie Hoyt ha sentito parlare di «seconde adozioni». Si trattava del caso di un diplomatico straniero che dopo aver adottato un bambino dall’estero, lo aveva respinto e “trasferito” a un’altra famiglia. Come madre adottiva di due bambini, la donna di Chicago era rimasta sconvolta dalla notizia. «Ma era avvenuto lontano da me, così non ci pensai toppo a lungo – spiega Melanie –. Mi dissi che era un’anomalia, che le persone normali non “disadottano” i loro figli». Negli anni seguenti, le arrivarono all’orecchio storie simili che coinvolgevano famiglie americane e all’apparenza comuni, come la sua. Poi cominciò a leggere il termine rehoming (ricollocamento) usato non in riferimento a un animale domestico al quale bisogna trovare un nuovo padrone, ma a bambini.

«La parte che mi turbava di più era la mancanza di supervisione nella ricerca delle nuove case per i piccoli: alcuni genitori, i quali avevano deciso di liberarsi del nuovo membro della famiglia, trovavano online una nuova famiglia per i figli che non volevano più. Ripensando al processo rigoroso al quale io e mio marito ci siamo dovuti sottoporre prima di accogliere Art e Jake, nella mia mente sorgevano immagini di bambini inviati a persone impreparate o, peggio, a pedofili. E il mio cuore si riempiva di collera per i genitori. Come potevano abbandonare delle creature alle quali avevano promesso di dedicarsi per sempre?» È stato quando una famiglia della sua comunità ha trovato via internet una nuova casa per il figlio adottivo che Melanie ha deciso di fare qualcosa.

«Perché attorno a me non ho trovato indignazione. Visto che queste erano persone per bene, molti miei amici mi invitavano alla comprensione: non è colpa loro, dicevano. Hanno solo dimostrato scarsa capacità decisionale. Non hanno avuto abbastanza sostegno. Dov’era lo sdegno per i bambini che pensavano di aver trovato una mamma e un papà? Dove la rabbia per il trauma che dovevano subire?» Melanie ha riunito una squadra di persone che la pensano come lei e si è dedicata a raccogliere firme per la proposta di rendere illegali le seconde adozioni in Illinois. Ma finora la legge non è cambiata.

Non è possibile confermare l’esperienza di Melanie su scala nazionale e dire se le seconde adozioni siano effettivamente in aumento negli Stati Uniti. Non ci sono numeri ufficiali, a causa di un panorama legale complesso che varia enormemente da Stato a Stato, e dove manca un riferimento federale. L’unico numero certo è la statistica fornita dal dipartimento di Stato americano. Quest’ultimo sostiene che dalle 25mila alle 35mila adozioni «falliscono» ogni anno. Dove vanno a finire quei bambini indesiderati? Molti a persone che, con la semplice firma di una procura, ne diventano i tutori, pur senza adottarli formalmente e senza subire seri controlli. Altri a istituzioni rieducative a lungo termine. Si può dire per certo, però, che la pratica è diventata più accettata negli Usa. È spesso paragonata a una sorta di divorzio fra genitori e figli che non si «capiscono più». A dare il senso di questa crescente accettazione sociale è il numero di agenzie e siti sorti per fare da intermediari, spesso a pagamento, fra i vecchi e i nuovi genitori.

Alcuni di questi si dicono “cristiani”, come Chask (Christian homes and special kids), che presenta il rehoming come una scelta difficile, un’ultima spiaggia per famiglie in difficoltà, ma pur sempre come una possibilità. Il sito mette in guardia le famiglie che cercano una nuova dimora per i loro bambini a non fidarsi di persone incontrate su gruppi online e di essere consapevoli che esistono individui che fanno «raccolta di bambini». Suggerisce di fare una visita personale alla nuova casa e di chiedere referenze, incluso il nome di un assistente sociale, di un parroco o di un avvocato. Nessun riferimento al coinvolgimento di un giudice. Poi avvisa la famiglia adottiva che «non può chiedere il rimborso di eventuali costi di adozione precedenti pagati a Chask».

È a Chask che si è rivolta Kathy (che non vuole che si usi il suo cognome), sempre di Chicago. Quest’ultima ammette di sapere di avere fallito come madre. «Non so cos’altro fare – spiega la 32enne –. È con un cuore molto pesante che ho deciso di dissolvere la mia adozione». L’oggetto della “dissoluzione” è Nina, una biondina vivace di 3 anni di origine russa. Vive con Kathy, suo marito (che chiama «mamma e papà») e un figlio biologico della coppia da quando aveva 12 mesi. «Io e mio marito ci siamo accorti di non essere in grado di gestire la nuova arrivata – spiega la donna –. Nonostante i nostri sforzi, i problemi della bambina rimangono grandi e ci stanno trascinando sempre più giù, al punto che a volte siamo inefficaci nel gestirla. Mi rendo conto che ci siamo avventurati in questa adozione in modo impreparato e ingenuo, senza sapere che cosa ci aspettava». Di fronte al prossimo “scioglimento” dell’unione, Kathy si è preparata: «Ho già programmato incontri con psicologi per me e per mio marito, per superare il trauma», conclude.

Dall’altra parte della stessa città, sono storie come questa a rendere agguerrita Melanie. Che le vede come una minaccia al valore stesso dell’adozione. «Come genitore adottivo, devo affrontare spesso l’idea che non sono la “vera” madre dei miei bambini o che loro non sono i miei “veri” figli – dice –. Il numero crescente di commenti, su internet o sui media, di persone che assicurano comprensione per la decisione “coraggiosa” della famiglia rovina la percezione della validità della mia famiglia. Promuove l’idea che quando i figli diventano troppo difficili, possiamo darli via. Solo quelli adottati, ovviamente. Non ci sarebbe mai un’accettazione così diffusa della donazione dei “veri” bambini». Melanie e suo marito stanno adottando due fratellini venuti da famiglie che li hanno respinti. E hanno stretto un’alleanza con un importante studio legale dell’Illinois, Mevorah, impegnato da anni nel monitoraggio di casi di seconde adozioni che affiorano nei tribunali per i minori e cerca i bloccarli, o perlomeno di portarli all’attenzione delle autorità come un’aberrazione. Melanie ha al suo fianco anche un’amica psicologa, Miriam Klevan, che mette in contatto con le famiglie adottive a corto di risorse affinché le aiuti a trovare una soluzione.

«La maggior parte dei genitori vuole essere amata – spiega Klevan –. Ma se vuoi essere il genitore di un bambino traumatizzato, non puoi avere questo tipo di attese. Devi superare le aspettative di adorazione ed essere soddisfatto se riesci a insegnare a questo essere umano a crescere emotivamente e a essere indipendente. Purtroppo molti genitori adottivi non riescono a rinunciare al sogno della famiglia idilliaca. È un problema sociale, oltre che legale, che mi sono impegnata a rettificare». Altre persone conducono sforzi simili in tutto il Paese. Edward McCarty, un giudice della contea di Nassau, ad esempio, ha impedito più di un caso di rehoming, sebbene la pratica non sia esplicitamente proibita nello Stato di New York, e ha segnalato i minori coinvolti ai servizi sociali. Più volte ha, inoltre, implorato l’Assemblea legislativa statale di chiudere la scappatoia legale che attualmente consente le riadozione di un minore.

Per sapere come la pensa McCarty basta leggere la sentenza che ha emesso quando una coppia di Long Island gli ha chiesto di revocare l’adozione di due bambini russi per poterli cedere a una nuova famiglia. «Tale rehoming o qualsiasi altra frase descrittiva per classificare questo commercio è inequivocabilmente una forma di traffico di bambini, persino in assenza di elementi finanziari – ha scritto –. Comporta il trasferimento della custodia del bambino a un estraneo senza l’ispezione preliminare della nuova famiglia da parte di un funzionario e senza la supervisione di un tribunale. Il motivo più spesso citato per il rifiuto da parte dei genitori adottivi è un fallimento nel legame. Il che è contrario al principio stesso dell’adozione».

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