Vi racconto i miei 23 anni di attesa per diventare (forse) italiano

Alidad è arrivato nel nostro Paese quando aveva 14 anni, oggi ne ha 34: «Sono cresciuto qui, ho studiato anche il nostro sistema politico, la nostra Costituzione. Voglio essere riconosciuto»
June 6, 2025
Vi racconto i miei 23 anni di attesa per diventare (forse) italiano
. | Alidad Shiri
Circa 20 anni fa sono arrivato in questo Paese come minore straniero non accompagnato, avevo 14 anni. Successivamente sono diventato titolare di status di rifugiato politico, con la fatica di un lungo interrogatorio in Commissione Territoriale a Gorizia. Sono cresciuto qui, ho studiato qui, mi sono sentito accolto, ho stretto una bella ampia rete di amicizie. Ho studiato con passione il nostro sistema politico, la nostra Costituzione, le due culture che in Alto Adige coesistono, con le proprie peculiarità, e ho coltivato particolarmente la lingua italiana comunicando e scrivendo molto, interesse che mi è stato riconosciuto dalla Società Dante Alighieri per la diffusione della lingua e cultura italiana nel mondo con il “Diploma di Benemerenza” ottenuto a Roma. Ho quindi valorizzato la cultura italiana, come tanti altri giovani autoctoni ed anche nuovi arrivati. Ho letto tanti libri in italiano di numerosi autori, ho guardato film, ho ascoltato canzoni e ho scritto la mia storia in italiano. Per questo nei miei anni universitari potevo discutere con i miei compagni e compagne di studio su vari argomenti, e mi accorgevo di saperne di più di alcuni di loro. In questi anni ho cerato di servire questo Paese con il cuore, impegnandomi notti e giorni, collaborando con le forze dell’ordine, magistratura, mondo scolastico, accademico, giornalismo e terzo settore, come cittadino, qui in Italia, ma anche unito a tutto il mondo, come consulente delle Nazioni Unite e dell’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo. Viaggiando molto, incontrando persone di ogni età ma soprattutto giovani, ho sentito forte che appartengo ad una comunità globale.
La mia sensibilità è sempre molto attenta ai rifugiati sparsi per il mondo, conosco le loro storie, le loro sofferenze, paure e speranze, il rischio di trovarsi in viaggi lunghi e impossibili tra la vita e la morte. Personalmente sono fortunato e grato verso tante persone che mi hanno accolto e sostenuto, ma conosco la situazione di tante persone che soffrono per il rifiuto nei loro confronti e il non riconoscimento dei loro minimi diritti umani. In questi ultimi anni vediamo in Europa e negli Stati Uniti politiche di sempre maggiore chiusura verso chi scappa da guerre, persecuzioni, miseria, disastri ambientali. Sono cavalcate da manipolatori professionisti che ogni giorno seminano il veleno dell’odio e pregiudizio contro lo straniero, accusato di essere un pericolo per il sistema dominante. Si gioca sull’incoscienza diffusa, dovuta anche ad errata informazione riguardo ai fenomeni migratori, cavalcando le paure di fronte al nuovo. Invece nei rapporti interpersonali so che quando semplicemente parliamo e comunichiamo tra di noi ci sono poche barriere e differenze, perché ci sentiamo tutti in fondo parte di questa umanità.
È molto contradittorio pensare che mentre entriamo velocemente in una nuova era di globalizzazione, dove la solidarietà dovrebbe essere anima delle politiche globali e locali, una leadership guarda invece principalmente all’interno del proprio guscio previlegiato, come qualcuno che si rinchiudesse nella propria stanza mentre tutta la casa sta bruciando. I problemi che affrontiamo ora sono questioni globali che possono essere risolti solo con la cooperazione tra le nazioni del mondo. In ogni Paese il riconoscimento della dignità dei cittadini e dei loro diritti passa attraverso quella chiamiamo cittadinanza, che implica diritti e doveri. Tra i più evidenti, sono i doveri sociali di contribuire al sostentamento del Paese attraverso il lavoro e quindi il pagamento delle tasse, il dovere di rispettare le leggi ma anche di cambiarle attraverso la partecipazione politica. Ancora prima viene il diritto e dovere di istruirsi e istruire i propri figli anche attraverso la conoscenza della lingua o lingue locali, le tradizioni, le culture. In un mondo globale come quello attuale, per istruirsi occorre anche viaggiare, spostarsi, ma se non hai riconosciuta la cittadinanza questo ti viene impedito, e non è poco. Ad esempio, se uno studente, i cui famigliari vengono da altri Paesi, che pure lavorano, pagano le tasse, sono integrati, vuole frequentare un Erasmus, oppure uno scambio di alcuni mesi in altre scuole, come in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Canada... non gli è possibile senza la cittadinanza. Se un giovane, anche nato in Italia, ma senza cittadinanza vuole candidarsi alle elezioni politiche locali o nazionali, non è possibile. Così anche per un concorso statale. Per non parlare delle lunghe code per il rinnovo del permesso di soggiorno davanti alle Questure in Italia. Attualmente l’iter per la richiesta del riconoscimento della cittadinanza è molto lungo e complesso.
Un immigrato può fare la domanda dopo 10 anni di ininterrotta residenza in Italia, 3 anni di contribuiti lavorativi, certificazione di una buona conoscenza della lingua, atto di nascita del paese di origine, fedina penale pulita sia in Italia che nel luogo di provenienza, oltre a pagamento di una discreta somma allo Stato. Dopo di che passano almeno tre anni per avere una risposta che può essere anche negativa per la mancanza di qualche documento. Allora occorre rinnovare da capo tutta la domanda e ancora aspettare. Nel mio caso, se tutto va bene fra tre anni potrei avere la cittadinanza, quindi 23 anni di attesa. Alcuni opinionisti, giocando sull’ignoranza diffusa, mettono in giro timori infondati che diminuendo la richiesta da 10 a 5 anni ci sarebbe una valanga di nuovi arrivi, mentre questa è una falsità perché riguarda solo chi sul luogo è già integrato e lavora. Semmai, una volta ricevuta la cittadinanza, come altri cittadini autoctoni molti potrebbero emigrare, cercando sistemazioni migliori, quindi avremmo meno immigrati. Io purtroppo non ho la possibilità di votare al referendum sulla cittadinanza, ma se l’avessi, voterei di si, per dare la possibilità ai bambini, ai ragazzi, alle persone che ogni giorno con fatica contribuiscono al benessere comune, di avere un riconoscimento pratico della loro dignità, diritti e doveri.

© RIPRODUZIONE RISERVATA