Sinner non parteciperà alla Coppa Davis: giusto o sbagliato?
Il campione di tennis altoatesino ha annunciato che quest'anno non farà parte della squadra italiana alle fasi finali della competizione che oppone team nazionali

Una scelta miope che privilegia l'«io» rispetto al «noi»
Non è esatto dire che la sua sia una scelta sbagliata. Più che altro sembra una scelta miope, e quindi criticabile. Il fatto che Jannik Sinner abbia declinato la convocazione in maglia azzurra per la prossima finale della Coppa Davis non fa di lui un disertore, perché nessuno può negargli il diritto di gestire carriera e salute come crede. Però può far vacillare anche il fanatismo spesso eccessivo che ammanta i sostenitori «a prescindere» di questo grande campione. Grazie alle sue straordinarie qualità, Sinner ha avuto (e ha) il merito di catalizzare solo positività su di sé, favorito anche dalla mancanza di un dualismo sportivo a livello nazionale: insieme al Coppi cioè, non c’è un Bartali del tennis italiano. Facile quindi innamorarsi del migliore, specie se è l’unico, se vince quasi sempre, ed è pure un ragazzo d’oro, il figlio, il fratello o l’amico che tutti vorrebbero. Ma quando un campione come lui rinuncia a battersi per l’interesse nazionale, il messaggio che arriva scalda l’acrimonia di chi lo considera poco italiano, freddo, distante. Il successo individuale è certamente importante, ma lo sport vive anche di storie di appartenenza e di spirito di squadra. Sinner ha dichiarato che la sua scelta è legata alla preparazione della stagione 2026 e alla necessità di riposo. Lo stesso però che si è negato pur di non mancare ai ricchi tornei ai quali ha partecipato, azzoppandosi di dolore e fatica. Una delle critiche più ricorrenti che oggi si fanno allo sport super professionistico è che sia sempre più individualista: sponsorizzazioni, calendari folli, esistenze da robot. Ma la Coppa Davis è l’unico evento nel tennis che restituisce la dimensione del «noi», della squadra, della rappresentanza di una nazione. Scegliere di non partecipare significa privilegiare l’io rispetto al noi. E in un’era in cui abbiamo tutti un gran bisogno di narrazioni collettive, il gesto appare, appunto, miope. Sarà pure deprezzata e stinta da epoche che sviliscono qualunque cosa, ma la maglia azzurra rappresenta ancora una generazione, un Paese, una storia. Rinunciarvi significa perdere un’occasione di partecipare a un momento di orgoglio nazionale. Crea dissonanza, e significa perdere una vetrina che difficilmente si ripeterà con lo stesso contesto favorevole. Qualcuno ora spera che Sinner ci ripensi, ma questo sarebbe un errore: rispondere alla convocazione deve accendere un fuoco interiore, non placare il senso del dovere. Sinner ha scelto, noi scegliamo di sopravvivere alla delusione. Ci riusciremo, non sarà poi così difficile.
Alberto Caprotti
Alberto Caprotti
Un «no» disarmante che ricorda il valore della misura
Cosa ci pesa davvero del no di Sinner? Davvero è solo il rischio di non vedere più sollevare l’«Insalatiera d’argento» mentre risuona l’Inno di Mameli? O è il nostro non riuscire a stare incollati alla tv per volée e rovesci, in assenza dell’aspettativa portata dal campione del momento? Abbiamo davvero più seguìto una gara di sci senza Alberto Tomba? E abbiamo davvero mai considerato il tennis, sport individuale per eccellenza tanto che c’è chi invoca l’abolizione del doppio, uno sport di squadra? È ben strana questa sollevazione popolare contro il no di Jannik, davvero poco decoroso quel microfono porto al 92enne Pietrangeli, spinto a parlare di «schiaffo al mondo sportivo italiano» per il gran rifiuto dell’altoatesino alla maglia azzurra. A settembre, persa la corona di numero uno al mondo dopo la sconfitta agli Us Open contro Alcaraz, Sinner non cercò scuse: devo migliorare, disse, uscire dalla comfort zone per crescere ed essere un giocatore migliore. Chissà in quanti sarebbero stati capaci, ancora caldi di delusione e amarezza, di riconoscere le proprie debolezze, e dopo una stagione da trionfatore. C’è tutto un pubblico, forse meno pratico di tennis, a cui interessa soprattutto quel Jannik, l’uomo oltre il reggi-insalatiera. Quando due settimane fa a Shanghai Sinner si è ritirato per crampi, si è parlato, fin troppo brevemente, dei danni di un calendario troppo fitto per la salute degli atleti. Ora, campioni del passato, come Panatta, sottolineano che loro alla Davis non avrebbero «mai rinunciato», ma ammettono che dagli anni Settanta è cambiato tutto, a partire dagli impegni richiesti oggi a un atleta di quel livello. Tutto è cambiato, dunque. Preparazione, calendari, pubblicità. Nel calcio non esistono più le bandiere da un pezzo, la Nazionale ha dimenticato come sono fatti i Mondiali e calciatori appena 25enni vanno già a svernare in Arabia. Ma alla Davis no, Jannik non doveva rinunciare. Toccherebbe chiedersi, però, perché ci serva sempre un eroe per sentirci parte di qualcosa, foss’anche una Davis. Con quel suo no educato e disarmante, Jannik ci ricorda il valore della dedizione a sé stessi, della misura, della fatica invisibile insita nella necessità di migliorarsi. E nel rumore di chi lo giudica, si perde la lezione più semplice: anche quando non gioca in azzurro, Sinner continua, meglio di molti altri, a rappresentarci.
Paolo M. Alfieri
Paolo M. Alfieri
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