Siamo attratti dai “cold case” per capire i nostri intimi delitti irrisolti

Seguendo i casi degli omicidi apprendiamo le tecniche investigative che, forse inconsapevolmente, ci saranno utili nel grande e ben più arduo viaggio indagatore dentro noi stessi
June 2, 2025
Siamo attratti dai “cold case” per capire i nostri intimi delitti irrisolti
Freddi, eppure caldissimi. Remoti nel tempo, ma prossimi nell’interesse popolare. Sono i cold case, ovvero i crimini a pista fredda: quando tutte le tracce investigative sono state battute e nulla sembra esserci più da scoprire, il caso diventa freddo. Apparentemente. Dopo anni rispuntano indizi e prove trascurati. Il Dna getta luce... ma anche ombre sulle indagini del passato. E se ne parla più di prima, perché il podcast del vicino non può essere più verde del mio e superarmi negli ascolti. Giornalisti investigatori navigati e più spesso improvvisati si tuffano sul caso freddo e lo ficcano nel microonde, a proposito o a sproposito poco importa.
La cronaca nera ha sempre fornito piatti succulenti all’informazione, ma in modo difforme. Negli anni Cinquanta, senza tv né web, erano i quotidiani a occuparsi di torbidi delitti e relativi processi ingaggiando i migliori fotografi e disegnatori, e giornalisti narratori apprezzati per la capacità di rendere in immagini vivide ciò che gli italiani non potevano vedere: una razza di cronisti salgariani ormai estinta. Negli anni Settanta la violenza politica diffusa e il terrorismo inondavano di sangue le strade ma senza solleticare la fantasia: il delitto Moro può essere considerato un cold case? Sappiamo davvero tutto? Il dubbio è legittimo eppure assai più attraenti sono i cold case successivi: i delitti di Lidia Macchi (Cittiglio, Varese, 1987); Simonetta Cesaroni (Roma, via Poma, 1990); Nadia Cella (Chiavari, 1996): irrisolti. Oppure quelli conclusi con una condanna che non tutti accettano, come Yara Gambirasio e Sarah Scazzi. Il caso aperto della triestina Liliana Resinovich. Infine il cold case del momento, il delitto di Garlasco, dalle acque torbidissime, dove reale, verosimile, improbabile e menzogna sembrano mescolati in un viluppo inestricabile.
Tutti delitti al femminile: suscitano maggiore emozione, e fa pensare quanta poca emozione provocò nel paese il caso del pastore sardo Beniamino Zuncheddu, libero dopo 32 anni in carcere da innocente, forse l’errore giudiziario più clamoroso della storia della nostra Repubblica. Ma perché in molti ne siamo attratti? Dobbiamo tutti sentirci in colpa? Quanto è opportuno che l’informazione se ne occupi, e soprattutto con quale tono di voce? Le ipotesi proposte da psicologi e sociologi sono tante. Nei cold case, e nella cronaca nera in generale, proiettiamo le nostre ansie e vulnerabilità: ciò che temiamo per noi lo vediamo realizzato altrove, e questo ci rassicura (fino a un certo punto). Più banalmente, può esserci del tedio esistenziale: cerchiamo di riempire una vita banale e ripetitiva, priva di sussulti, con l’“eccezionale” del crimine. C’è anche la ricerca della verità e dell’ordine: desidereremmo vivere in un mondo senza oscurità né ambiguità, e quindi partecipiamo alle indagini di casi esterni a noi… perché ben più ardue sarebbero le vere indagini da condurre, quelle dentro di noi, alla ricerca della verità che giace, spesso abilmente camuffata, nella nostra anima.
I cold case dei grandi delitti irrisolti, o gravidi di dubbi, sono il viaggio esteriore che compiamo nell’attesa, o nel timore, o nell’incapacità di compiere la grande indagine dei cold case della nostra vita passata, che ci hanno fatti essere ciò che oggi siamo. O forse, più positivamente, seguendo i cold case andiamo a scuola: apprendiamo le tecniche investigative che, consapevolmente o inconsapevolmente, ci saranno utili nel grande e ben più arduo viaggio indagatore dentro noi stessi, le nostre relazioni passate, i nostri “crimini irrisolti”. E nel passato nella nostra anima nulla si raffredda mai.

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