Sì, è proprio vero: la letteratura è inutile. Come la Luna
di Marco Erba
Contemplare un quadro, ascoltare una poesia, commuoversi per un brano musicale, per un romanzo o per un film, salva la vita. E' il chiarore nel buio raccontato da Pirandello

Massimo è un giovane uomo, è a metà della quinta superiore. Fa l’istituto tecnico, il suo sogno è diventare ingegnere. Da tre anni è mio allievo: ha un’intelligenza pronta; è serio, affidabile. In classe è taciturno: non interviene quasi mai, ma riempie libri e quaderni di appunti, non si perde una parola delle mie spiegazioni. Sembra interessato alla materia che insegno, italiano, nella quale ottiene sempre ottimi risultati. Si presenta col padre a un ricevimento dei genitori pomeridiano. Facciamo il punto della situazione: va tutto molto bene, non ho granché da dire.
«Mio figlio apprezza molto la letteratura italiana» ci tiene a sottolineare il padre».
«Lo vedo», rispondo. «Mi fa piacere».
Il ragazzo vuole dire la sua: «Le sue lezioni sono tra le mie preferite, prof: la letteratura italiana è bellissima. Del tutto inutile per la mia vita e il mio percorso, del tutto inutile nel mondo del lavoro. Però bellissima, davvero. Uno dei migliori passatempi».
Il padre annuisce, fiero del figlio.
Resto di sasso, non riesco a dire granché. Il tempo del colloquio è già scaduto: stringo la mano a entrambi, li saluto sforzando un sorriso. Ci sono rimasto male: chi sono dunque? Un intrattenitore? Un giullare? Il conduttore di un varietà? Uno che fa un mestiere inutile, ma piacevole per il pubblico? Uno che butta il suo tempo, ma ce la mette tutta, quindi è ok e va bene così? Ci penso anche la sera, mentre torno a casa da scuola. Non riesco ad arrabbiarmi per quelle parole: non c’era in esse maleducazione, ma sincerità. Mi convinco che davvero quell’allievo volesse farmi un complimento, che non volesse umiliarmi o prendermi in giro. Lui la pensa proprio così, e come lui la pensa suo padre, visto come annuiva. Qualche giorno dopo, nella classe di quel ragazzo, leggo una delle novelle più belle di Luigi Pirandello.
«Mio figlio apprezza molto la letteratura italiana» ci tiene a sottolineare il padre».
«Lo vedo», rispondo. «Mi fa piacere».
Il ragazzo vuole dire la sua: «Le sue lezioni sono tra le mie preferite, prof: la letteratura italiana è bellissima. Del tutto inutile per la mia vita e il mio percorso, del tutto inutile nel mondo del lavoro. Però bellissima, davvero. Uno dei migliori passatempi».
Il padre annuisce, fiero del figlio.
Resto di sasso, non riesco a dire granché. Il tempo del colloquio è già scaduto: stringo la mano a entrambi, li saluto sforzando un sorriso. Ci sono rimasto male: chi sono dunque? Un intrattenitore? Un giullare? Il conduttore di un varietà? Uno che fa un mestiere inutile, ma piacevole per il pubblico? Uno che butta il suo tempo, ma ce la mette tutta, quindi è ok e va bene così? Ci penso anche la sera, mentre torno a casa da scuola. Non riesco ad arrabbiarmi per quelle parole: non c’era in esse maleducazione, ma sincerità. Mi convinco che davvero quell’allievo volesse farmi un complimento, che non volesse umiliarmi o prendermi in giro. Lui la pensa proprio così, e come lui la pensa suo padre, visto come annuiva. Qualche giorno dopo, nella classe di quel ragazzo, leggo una delle novelle più belle di Luigi Pirandello.
Ciàula, il protagonista, è un povero caruso che lavora in una miniera di zolfo. È l’ultimo degli ultimi: sfruttato e deriso, trattato come un animale da fatica, porta i pesanti carichi dalle profondità della miniera su, per le scale, fino all’uscita, fino alla luce. Il suo soprannome, Ciàula, significa «cornacchia»: tutti lo trattano come un povero scemo, non si fanno problemi a sfogare su di lui la loro frustrazione con botte e insulti. Ciàula, dunque, è un poveraccio costretto a una vita bestiale, senza altre prospettive che non siano la miseria e l’usura fisica fino allo stremo.
Ciàula non teme il buio della miniera, ma teme il buio della notte. Di solito torna a casa prima che il sole tramonti, ma una volta, dopo un grave incidente in miniera causato da uno scoppio, si è nascosto in un anfratto per ripararsi e, salite le scale dopo molto tempo, si è ritrovato nel buio vasto della notte, spaventandosi a morte. Per questo, quando un giorno viene obbligato a restare a lavorare fino a tardi, è terrorizzato: sa che quando salirà dalla miniera col suo pesante carico si troverà di nuovo in quel buio sconfinato e tremendo, che avvolge tutte le cose, rendendole minacciose, sconosciute.
Ciàula dunque sente crescere l’angoscia gradino dopo gradino, mentre sale le scale fino all’apertura della miniera. Si aspetta da un momento all’altro di dover affrontare il buio, ma nota qualcosa di strano: nonostante l’ora, c’è un chiarore. Un chiarore che cresce.
Ciàula sbuca all’aperto. Il carico gli cade dalle spalle. Resta stupefatto: Scrive Pirandello:
«Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna».
L’autore scrive proprio così: la Luna con la maiuscola, come fosse una divinità benevola, la personificazione di qualcosa di immenso, di meraviglioso, di trascendente.
Per Ciàula è una vera a propria rivelazione:
«Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna? Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna... C’era la Luna! la Luna!».
Ciàula si commuove, e con lui si commuove il lettore. Il finale della novella è magistrale:
«E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell'averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore».
Ciàula non teme il buio della miniera, ma teme il buio della notte. Di solito torna a casa prima che il sole tramonti, ma una volta, dopo un grave incidente in miniera causato da uno scoppio, si è nascosto in un anfratto per ripararsi e, salite le scale dopo molto tempo, si è ritrovato nel buio vasto della notte, spaventandosi a morte. Per questo, quando un giorno viene obbligato a restare a lavorare fino a tardi, è terrorizzato: sa che quando salirà dalla miniera col suo pesante carico si troverà di nuovo in quel buio sconfinato e tremendo, che avvolge tutte le cose, rendendole minacciose, sconosciute.
Ciàula dunque sente crescere l’angoscia gradino dopo gradino, mentre sale le scale fino all’apertura della miniera. Si aspetta da un momento all’altro di dover affrontare il buio, ma nota qualcosa di strano: nonostante l’ora, c’è un chiarore. Un chiarore che cresce.
Ciàula sbuca all’aperto. Il carico gli cade dalle spalle. Resta stupefatto: Scrive Pirandello:
«Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna».
L’autore scrive proprio così: la Luna con la maiuscola, come fosse una divinità benevola, la personificazione di qualcosa di immenso, di meraviglioso, di trascendente.
Per Ciàula è una vera a propria rivelazione:
«Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna? Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna... C’era la Luna! la Luna!».
Ciàula si commuove, e con lui si commuove il lettore. Il finale della novella è magistrale:
«E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell'averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore».
Rileggere quella novella davanti alla classe, pochi giorni dopo quel colloquio, è un’illuminazione anche per me. Collego Ciàula alle parole di quel ragazzo, all’annuire di suo padre. «Qual è l’utilità della luna?», chiedo.
Silenzio. Un silenzio carico di riflessione, di attenzione.
Poi qualcuno osa una risposta: la luna è la rivelazione dell’umanità di Ciàula, della sua dignità, della dignità di ogni persona. La luna è la bellezza che risplende improvvisa anche nella vita più misera. La luna è apertura di senso, nuova prospettiva possibile, stupore che sorprende e regala uno sguardo nuovo.
La luna che è là, inutile ma bellissima, come la letteratura secondo il mio allievo. Adesso, discutendo coi ragazzi, mi rendo conto che forse la sua frase, quella frase che all’inizio mi ha ferito, è la più bella definizione di ciò che davvero è la letteratura, di ciò che è la cultura in generale. Forse la letteratura non ha un’utilità pratica, ma è bella, e la bellezza, splendidamente inutile, è più utile di tante cose utili a livello pratico. Contemplare un quadro, ascoltare una poesia, commuoversi per un brano musicale, per un romanzo o per un film, salva la vita. La bellezza fa riscoprire la parte più preziosa di noi, ci fa respirare dentro qualcosa di grande, ci apre all’empatia, ci fa sentire gli altri come vicini; ci interroga sul senso di tutto ciò che facciamo, dà gusto e colore alle cose, schiude orizzonti. E soprattutto ci ricorda che non tutto ciò che è essenziale può essere misurato, rendicontato, calcolato, utilizzato: la vita non è accumulo, è respiro.
Silenzio. Un silenzio carico di riflessione, di attenzione.
Poi qualcuno osa una risposta: la luna è la rivelazione dell’umanità di Ciàula, della sua dignità, della dignità di ogni persona. La luna è la bellezza che risplende improvvisa anche nella vita più misera. La luna è apertura di senso, nuova prospettiva possibile, stupore che sorprende e regala uno sguardo nuovo.
La luna che è là, inutile ma bellissima, come la letteratura secondo il mio allievo. Adesso, discutendo coi ragazzi, mi rendo conto che forse la sua frase, quella frase che all’inizio mi ha ferito, è la più bella definizione di ciò che davvero è la letteratura, di ciò che è la cultura in generale. Forse la letteratura non ha un’utilità pratica, ma è bella, e la bellezza, splendidamente inutile, è più utile di tante cose utili a livello pratico. Contemplare un quadro, ascoltare una poesia, commuoversi per un brano musicale, per un romanzo o per un film, salva la vita. La bellezza fa riscoprire la parte più preziosa di noi, ci fa respirare dentro qualcosa di grande, ci apre all’empatia, ci fa sentire gli altri come vicini; ci interroga sul senso di tutto ciò che facciamo, dà gusto e colore alle cose, schiude orizzonti. E soprattutto ci ricorda che non tutto ciò che è essenziale può essere misurato, rendicontato, calcolato, utilizzato: la vita non è accumulo, è respiro.
Sono passati anni dal colloquio con quel ragazzo e con suo padre e dalla mia personale riscoperta della luna insieme a Ciàula, a Pirandello e a quella classe dell’istituto tecnico. Tempo dopo però ho incontrato una persona che mi ha riportato alla mente tutto questo. Un’insegnante con sette fratelli, figlia di un minatore, uno di quelli che avrebbero potuto davvero lavorare col Ciàula pirandelliano. Questa insegnante, di fronte a un caffè, mi ha raccontato di lei e della sua famiglia. Il papà tornava a casa tutte le sere dalla miniera, distrutto, ma mai arreso. Lui, che lavorava sottoterra, sapeva guardare il cielo, e ripeteva sempre ai suoi figli di studiare, che la cultura era importante. Parole così vere, così concrete, che hanno lasciato il segno: quei figli oggi sono tutti insegnanti nelle scuole di ogni ordine e grado, dall’università alle elementari. Quei figli di un minatore che, come Ciàula, sapeva forse lasciarsi sorprendere dalla luna e dalle sue infinite prospettive, sono a loro volta dei Ciàula, magari derisi da qualche cinico, ma che nella vita regalano sapere e bellezza, le cose più fondamentali che ci sono.
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