Se le democrazie sono stanche, la cura deve essere civica
di Giorgio Vittadini
La battaglia contro gli oligopoli la possono fare le comunità locali, perché tendono a essere meno divisive, e perché in esse esistono maggiori partecipazione sociale e senso di autodeterminazione da parte dei cittadini

La democrazia continua a essere “stanca” come ha scritto in un suo libro Michael J. Sandel. Si può affermare, secondo le analisi degli osservatori, che sia in continuo declino. Il Global democracy index dell’Economist è un centro di ricerca e valutazione che ogni anno compila una classifica sul livello democratico di 167 Paesi. Nel 2024, solo il 45% della popolazione ha vissuto in una democrazia, mentre il 39% ha dovuto fare i conti con regimi autoritari e il 15% aveva di fronte sistemi con tratti democratici che si alternavano a derive autoritarie. C’è un aspetto inquietante da considerare per il 2024. Si è votato in 70 Paesi, ma l’indice di democrazia è sceso a 5,17 punti, mentre dieci anni fa, nel 2015 era del 5,5. Joan Hoey, che è il direttore di questo osservatorio, ha detto: «Mentre le autocrazie sembrano guadagnare forza le democrazie mondiali stanno faticando». Anche nelle democrazie cresce la percezione dei cittadini di una loro marginalità nelle scelte politiche: a metà degli anni Novanta il sociologo Luciano Gallino aveva previsto il continuo indebolimento delle democrazie. Sia a livello italiano che a livello europeo, le decisioni politiche venivano progressivamente prese dalla Banca Centrale Europea in accordo con le banche d’affari. Le istituzioni classiche della democrazia discutevano ma non decidevano più. Che cosa ha provocato tutto questo? La finanza globalizzata ha esaltato lo spirito individualistico del capitalismo creando le più grandi disuguaglianze sociali possibili. Secondo il Rapporto Oxfam sul 2024, l’uno per cento più facoltoso al mondo possiede il 45% della ricchezza del pianeta, mentre 3,5 miliardi di persone (quasi una persona su due, il 44%) vivono in povertà, con meno di 6,85 dollari al giorno.
È questo che emerge dal libro di Sandel citato all’inizio. L’errore più grave è che si è confusa la fine della “guerra fredda” con la “fine della storia” non considerando che un mercato senza regole avrebbe generato un profondo senso di impotenza dei cittadini sul piano economico e politico. È di fronte a un simile scenario che deve irrompere con tutta la sua forza la cultura della sussidiarietà sotto i due aspetti economico e politico. La sussidiarietà del 2025 non significa contrapposizione tra Stato e privato, in particolare sociale, ma la messa a sistema del contributo di tutti, realtà pubbliche, private e di privato sociale, secondo una visione di bene comune. Essa implica innanzitutto una lotta alle crescenti disuguaglianze attraverso la promozione dell’economia reale, del lavoro dignitoso, di uno sviluppo in cui il welfare sia un fattore determinante. Questo implica che non ci sia un solo modello d’impresa, ma una “biodiversità” in cui convivano multinazionali, imprese medie e piccole, realtà di economia sociale e del non profit, intervento dello Stato e opere sociali come risposte solidali ai bisogni. Lo indica nel suo libro “Il terzo pilastro” Raghuram Rajan, ex Governatore della Banca centrale indiana. È un’illusione che Stato e mercato possano affrontare e risolvere i drammatici problemi delle diseguaglianze sociali. La battaglia contro gli oligopoli la possono fare le comunità locali, perché tendono a essere meno divisive, e perché in esse esistono maggiori partecipazione sociale e senso di autodeterminazione da parte dei cittadini. In questo quadro in particolare, i corpi intermedi e le realtà sociali non possono essere gusci vuoti ed inerti: devono essere comunità vive al loro interno, capaci di educare, correggere e favorire il formarsi di un pensiero critico e libero. Il loro scopo non è sostituire la pubblica amministrazione, ma dialogare e collaborare con essa per il bene del cittadino. In questo quadro, il rischio è che la realtà sia più avanzata della legislazione, che pure ha fatto diversi passi avanti. Ad esempio: alloggi comunali dati in convenzione, estensione del welfare aziendale oltre l’azienda, convenzioni con le farmacie nelle aree interne, ad esempio, per la diagnostica, case di comunità, benefici fiscali su specifici bisogni.
Presidente Fondazione sussidiarietà
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