Rinunciare alla cura? Per lo Stato è una sconfitta

La sottile persuasione che di fronte al dolore ci possa essere un salvacondotto può far presa. Eppure l’uomo per sua natura ha un’innata proiezione alla vita e dare morte non è avere pietà
July 1, 2025
Rinunciare alla cura? Per lo Stato è una sconfitta
Lo slogan “liberi fino alla fine” non è credibile, ha il sapore dell’inganno. In effetti è una battuta costruita su misura per arrivare dritti dritti alla pancia dei malati e dei sani. Cavalca lo stato emozionale di chi non vuole soffrire (perché c’è qualcuno che preferisce il dolore alla salute? domanda…) e soprattutto dei moltissimi italiani che hanno detto: «Se starò così, fatemi fuori vi prego». Sfido trovare una persona sana di mente che dica: «Vorrei soffrire», non esiste. Però la sottile persuasione che di fronte al dolore ci possa essere un salvacondotto sembra faccia presa sulla gente. È un inganno, ripeto. Dare la morte o darsi la morte, non è mai un atto di libertà e non è mai un gesto di pietà. Può sembrare nel proprio immaginario di poter sfuggire alla sofferenza, di trovare sollievo pensando di potersi sottrarre a paventate sofferenze infernali (sempre per quel subliminale terrorismo psicologico), ma spegnere un’esistenza, fosse anche la propria, è un gesto violento e insensato. Dare la morte è sempre un male, un atto crudele e disumano. Una sconfitta della natura umana e il fallimento di uno Stato. L’uomo per sua natura ha un’innata proiezione alla vita, alla solidarietà e all’esperienza della comunità, a prescindere dal suo stato di salute. Cioè, anche chi si trovasse in una condizione clinica irreversibile e con una prognosi infausta confida sempre in una comunità di amici che sappia fare quadrato attorno al suo dolore, prendersi carico della sua debolezza e alleviare il carico delle sofferenze. Nella malattia si cerca significato al proprio esistere, e la scelta della morte non ha nessun significato. Nella malattia è più umano farsi prossimi che farsi da parte.
Se rinunciasse al dovere di curare, lo Stato si consegnerebbe alla propria disfatta. L’eutanasia non è una cura, non può rientrare tra gli impegni di un sistema sanitario. Una Nazione è tale se si riconosce attorno ad alcuni valori fondamentali, tra questi il dovere di proteggere e di prendersi cura dei malati e non ammette per definizione di poter dare la morte su richiesta, in nessuna condizione. Dare o darsi la morte non può essere un diritto positivo riconosciuto da uno Stato. Sarebbe uno stravolgimento dell’antropologia e dei fondamenti della medicina.
L’uomo non può considerarsi libero di uccidere, neanche nei casi in cui i trattamenti di sostegno vitale fossero indispensabili, perché quella persona non è meno persona a motivo della sua malattia. Se non si uccide la persona sana perché si dovrebbe uccidere la persona malata? Non è legittimo spegnere la vita di un malato. Il sistema sanitario di un Paese investe risorse, piuttosto, per migliorare le moltissime lacune dell’Assistenza Domiciliare Integrata, per consentire week-end di sollievo per i care givers, per ottimizzare il funzionamento degli hospice organizzando spazi-famiglia che consentano una sempre migliore relazione parentale intorno al malato.
Le forniture necessarie al malato devono arrivare a domicilio evitando ai care givers di fare lunghe file al Distretto Sanitario per ricevere garze, sacche e cateteri. La legge 38/2010 sulle cure palliative ha bisogno di fondi, il governo dovrebbe procedere a stanziarli in misura adeguata per dare un segnale forte che il malato dev’essere curato, altrimenti la deriva eutanasica troverà campo libero. Se gli attivisti pro-eutanasia avessero dedicato lo stesso impegno e profuso le stesse forze per migliorare il sistema sanitario, non avremmo avuto più bisogno di spegnere vite umane inferme. Ma davvero abbiamo rinunciato a credere che la malattia possa essere comunque un tempo importante dell’esistenza dell’uomo? Eppure, proprio nel tempo del fine vita si raccolgono le frasi più intense della persona malata, gli ultimi sguardi indimenticabili, le testimonianze profonde delle persone che amiamo. Lo slogan ingannevole degli attivisti ha terrorizzato gli italiani, ma oggi la malattia, seppur dolorosa e mai auspicabile, ha cure possibili e una palliazione del dolore.
Le relazioni affettive sono un supporto fondamentale. Quasi sempre chi aveva presagito: «Vi prego fatemi morire», nel momento della malattia ha cercato la tenerezza dei propri cari e non la morte. La pietà, poi, sceglie sempre di curare, non è mai un inganno.
Associazione Papa Giovanni XXIII

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