“Remigrazione” e “riconquista”, attenzione alle parole d’odio
di Diego Motta
Il linguaggio ostile verso migranti e Ong nella politica e nella società spinge nella direzione dell’intolleranza

Non bastava la «remigrazione», ora si punta direttamente alla «riconquista». Sono toni sempre più belligeranti quelli che si ascoltano negli ambienti dell’estrema destra da qualche mese a questa parte, quasi non bastasse il discutibile giro di vite operato dal governo in questa legislatura in materia di flussi migratori. Parole e slogan che hanno tenuto banco anche all’ultima adunata della Lega a Pontida, lo scorso settembre, a conferma che il sentimento di intolleranza degli italiani verso gli stranieri è tutt’altro che sopito e fa breccia anche in settori importanti della maggioranza di governo.
I vicesegretari del Carroccio, Roberto Vannacci e Silvia Sardone, beniamini e campioni di certi talk show televisivi, hanno infatti più volte usato la parola «remigrazione», che fa rima con deportazione. In realtà, sono solo gli ultimi arrivati di una protesta che ha avuto CasaPound come cervello e motore della mobilitazione. Siamo di fronte all’ultima involuzione pericolosa della strategia “legge e ordine” sui migranti. Il nascente “Comitato remigrazione e riconquista” ha come obiettivo l’espulsione «immediata e totale» degli stranieri irregolari, la «nascita dell’istituto della remigrazione volontaria» e «l’introduzione del patto di remigrazione volontaria». Nel mirino non ci sono solo le Ong (questa non è una novità) ma anche gli imprenditori «che lucrano sullo sfruttamento dell’immigrazione», oltre a misure come il decreto flussi da abolire e il ritorno degli italo-discendenti. Una volta esaurita la fase uno, la “pulizia” dei quartieri cittadini, si aprirebbe la fase due: il rilancio della presenza italica. Il sangue viene prima della terra, il confine delimita le nuove fortezze. Ci vuole poco, in una simile deriva valoriale, perché un brivido corra lungo la schiena.
Innanzitutto, si rischia di fare di tutta l’erba un fascio: chi si vorrebbe espellere seduta stante perché tiene «in ostaggio» le periferie delle nostre città viene messo insieme a chi invece arriva nel nostro Paese per fare lavori stagionali, il giovane sbarcato dopo un’odissea in mare fa coppia con l’invisibile che sogna di avere la cittadinanza. Emerge così il volto di un’Italia vicina all’America più recente, quella delle retate nelle metropoli contro i migranti e quella che non si fa problemi a mettere sul primo aereo disponibile gli stranieri senza documenti. Gli Usa non sono l’unico caso, peraltro. Senza andare lontani, la stessa Gran Bretagna ha presentato con il governo Sunak il “piano Ruanda”, indicando il Paese africano come méta finale per i richiedenti asilo da rimpatriare.
È vero, remigrazione e riconquista non sono ancora entrate per fortuna nel novero dei luoghi comuni che tanti successi hanno avuto, innanzitutto a livello linguistico, nella retorica anti-immigrazionista di questi anni, basti pensare a fortunati slogan come “Prima gli italiani” o “Padroni a casa nostra”. Perché allora ci devono preoccupare? Perché ci sono segnali di un malessere sociale ormai cronico, che si accompagna a continue (e sottovalutate) mobilitazioni dal basso di attivisti post-fascisti e militanti delle forze politiche, a sit-in con tanto di striscioni e slogan nelle grandi città, alle prime adesioni di consiglieri comunali sparsi da Nord a Sud, alla grancassa di tanti emittenti private che speculano sull’odio di quartiere. È un film già visto, che punta a concretizzarsi con una proposta di legge popolare, che riuscirebbe a sdoganare in un colpo solo il razzismo latente e le teorie sul suprematismo bianco.
Qui si approda inevitabilmente sul terreno della politica. La novità in questo caso è che per la prima volta l’interlocutore scelto dalla galassia di estrema destra è un governo “amico”, che più volte ha ribadito la necessità di stringere ulteriormente le maglie sui flussi migratori. I numeri di questo inizio d’ottobre dicono che la strategia di contenimento degli arrivi continua a non funzionare, visto che in un anno sono arrivati oltre mille profughi in più (53mila contro 52mila). È la dimostrazione che le intese tanto strombazzate con Libia e Tunisia per frenare le partenze restano inefficaci, mentre gli annunci sui Cpr (uno per regione, si diceva) sono rimasti sulla carta. Che dire poi dei discussi e costosi centri aperti in Albania, di cui si è persa traccia?
Eppure spingere nella direzione dell’intolleranza e della chiusura, in tempi delicati come questi, può essere un passepartout per raggiungere fasce di cittadini arrabbiati e non è escluso che anche nella maggioranza vi possa essere la tentazione di appoggiare soluzioni estreme, anche solo per coprirsi a destra. Ma qui si parla, appunto, di deportazione, di espulsione di massa, di caccia allo straniero.
Ce n’è abbastanza per chiedere a chi ha ruoli istituzionali e di governo uno scatto, una reazione immediata contro la propaganda, che sarebbero ancora più significativi e incoraggianti in tempi bui come questi.
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