"Paletti" nel caso Kessler? Sono fondamenti ineludibili
La Germania prova ad abbatterli in nome della "libera volontà". Nella nostra Costituzione sono fari, frutto di un consenso che nell'intenzione dei padri costituenti poneva al cento il valore della vita

Il suicidio delle gemelle Kessler ha ridato vigore al dibattito sull’opportunità o meno, anche in Italia, di una legge sul fine vita. Non fosse altro perché le due ballerine avevano lavorato per la televisione italiana nel ventennio 1960-1980, e non c’è boomer che non le ricordi, con una immagine del tutto opposta a quelle con cui sono rientrate oggi tristemente all’attenzione della cronaca.
Il malinconico episodio vale, innanzi tutto, una prima riflessione sulla diversità – in tema di suicidio assistito – tra il sistema giuridico tedesco e quello italiano. Che va messo ben a fuoco, dato che in Italia siamo in fase di ius condendum. Sia da noi che in Germania, le fonti principali (al momento) del diritto sul fine vita sono due sentenze delle rispettive Corti costituzionali. In entrambe, le Corti si concentrano sugli effetti della punibilità dell’assistenza al suicidio.
La sentenza della Corte tedesca espande largamente la non punibilità, non richiamando specificamente alcuno dei requisiti e delle modalità cui la Corte italiana ha subordinato la non perseguibilità della condotta dell’assistente all’atto suicidario, rendendo non punibile l’esercizio “professionale” dell’assistenza al suicidio, precedentemente vietata alla sezione 217 del Codice penale tedesco. Il divieto dell’esercizio “commerciale-professionale” dell’aiuto al suicidio, vietato nella sezione 217 del Codice penale, ad avviso della Corte, rendeva praticamente impossibile, per le persone che lo avessero richiesto, beneficiare dell’assistenza al suicidio fornita da imprese specializzate. Infatti, prima della sentenza del 2020, la sezione 217 prevedeva una pena nei confronti di «chiunque, con l’intenzione di aiutare un’altra persona a suicidarsi, fornisca, procuri o organizzi l’opportunità per tale persona di farlo come servizio professionalizzato». Questa disposizione è stata annullata. Da qua, la possibilità delle gemelle Kessler di procedere e rivolgersi a una apposita associazione dedicata, medici che lavorano in regime ambulatoriale o ospedaliero, e avvocati specializzati nel fine vita.
Per il legislatore italiano pare di importante rilievo il confronto, essenziale, tra la pronuncia 242/2019 della Consulta e i paragrafi 340 e 341 della sentenza tedesca in base ai quali, in virtù del riconoscimento costituzionale del diritto al suicidio – che include semplicemente ogni motivo alla base della decisione di un individuo di suicidarsi –, è «vietato subordinare l’ammissibilità del suicidio assistito a criteri oggettivi, quale la presenza di una malattia incurabile o fatale». L’unica raccomandazione dei giudici tedeschi è che, a seconda delle circostanze, possano essere richiesti requisiti diversi per dimostrare la serietà e la permanenza in capo al soggetto di una volontà di suicidio. In sintesi estrema: in Germania basta e avanza la libera e attuale espressione della volontà di suicidarsi, senza quelli che con termine spregiativo e banale vengono in Italia chiamati “paletti”. Al contrario, la sentenza della nostra Consulta del 2019 (e le seguenti che l’hanno integrata) non implica tanto l’obbligo – ritenuto da qualcuno cinico e poco pietoso – di confini che svuoterebbero un presunto diritto a morire ma salvaguardano il primario interesse alla più autentica e profonda libertà. Che è quella dei Paesi civili e liberali di dare valore alla vita non “nonostante” la sua fragilità e la malattia, ma proprio per questo, e soprattutto nel momento della debolezza.
La nostra Costituzione, unico faro per la Consulta ma anche del legislatore, tutela e difende anche la fragilità. I “paletti” non stanno da nessuna parte, né tanto meno in una presunta eccessiva creatività di giurisprudenza costituzionale. Sono, al contrario, fondamenti e fari ineludibili, frutto di un consenso largo e profondo che, nell’intenzione dei padri costituenti, poneva al centro il valore della vita di ogni cittadino. A partire da visioni diverse, in un arricchimento reciproco e indelebile.
Valore della vita non è solo valore dell’efficienza, della vitalità, della salute. O di alcuni desideri. È anche valore della lotta a fianco del debole. Valore della disabilità, della mancanza della perfezione, del limite. È, dunque, auspicabile che il legislatore italiano reinterpreti con la libertà che gli è propria i valori sottostanti a una pronuncia costituzionale che è di gran lunga più attenta alla salvaguardia della persona e della sua libertà di quanto non abbiano fatto i colleghi d’oltralpe. Insinuare l’idea che “basti la volontà” assomiglia al tanto moderno “basta l’emozione, l’amore, basta il desiderio”. Si potrebbe facilmente aprire una deriva scivolosa e pericolosa verso un ampliamento incontrollabile della platea di chi potrebbe accedere all’assistenza al morire.
La Costituzione italiana è un felice intreccio tra il riconoscimento dei diritti a realizzare progetti e desideri e la responsabilità dei doveri ad aiutare a realizzare anche le aspirazioni dei più fragili: anch’essi desideri e progetti di vita. Al momento, in Italia la risposta al “desidero morire” è “debbo prima prendermi cura”. Che la sentenza 242 lo rammenti pare un fatto di enorme civiltà. Giuridica, e non solo.
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