«Nel 2033 tutti a Gerusalemme!». Ecumenismo che fa pace
In questo quadro di sbigottita afasia, rassegnata alla navigazione di piccolo cabotaggio, se non addirittura alla resa, questo viaggio del Papa ha fatto sapientemente uscire dalle pieghe del suo backoffice uno slancio del cuore che va lontano, oltre l’ostacolo

La dichiarazione congiunta del Vescovo di Roma, il papa Leone, con il patriarca ecumenico Bartolomeo I, in occasione della celebrazione dei 1700 anni del primo Concilio ecumenico, è focalizzata sul concorde rifiuto di «qualsiasi uso della religione e del nome di Dio per giustificare la violenza». Il solenne pronunciamento è collocato nel contesto di un appello a perseguire con ancora maggiore determinazione l’impegno rivolto all’unità dei cristiani. Lo esprime il concorde auspicio della individuazione di una data comune per la celebrazione della Pasqua. Nei diversi interventi di papa leone XIV, del resto, l’ecumenismo della riconciliazione – quello della fede tra i cristiani e quello della pace fra i popoli – appare con tutta evidenza come tratto unificante e cifra riassuntiva dei momenti che scandiscono il suo viaggio apostolico. I temi della pace, della conciliazione fra i popoli, dell’unità fra i cristiani, del resto, sono apparsi come le armoniche costanti del magistero del Papa in questi primi mesi del suo ministero petrino.
Purtroppo nuovi venti e nuovi eventi di guerra, che spingono i popoli a una ferocia distruttiva che pensavamo ridimensionata dalla moderna civilizzazione, trovano copertura – di nuovo! – in un deliramento dell’identità religiosa che sembrava consegnato al passato. È proprio vero, l’umano non è soltanto una «canna pensante», come lo descrive paradossalmente Blaise Pascal, è anche un «legno storto», come lo ha efficacemente ritratto Isaiah Berlin. La canna è fragile, il legno è storto. La capacità di resilienza dell’umano, tuttavia, a fronte della intrinseca vulnerabilità delle sue forze, come anche delle imprevedibili folate della sua follia, esiste. Enigmatico impasto di determinazione terrena e di grazia celeste, esiste. Noi, però, eredi di una civiltà cristiana che più si è avvicinata a una cultura della familiarità conviviale fra i popoli e le religioni, abbiamo forse abbassato la guardia. Spensieratamente dedicati all’ottimizzazione del nostro benessere, fin nelle pieghe più cosmetiche e più futili della sua apparenza, abbiamo abbassato la guardia. La vulnerabilità va protetta, la resilienza si educa, contro la tentazione dell’egoismo si può lottare e dalla manipolazione della mente ci si può difendere. Forse abbiamo smesso di guadagnarci, giorno per giorno, la ricchezza del nostro umanesimo. E ora, proprio noi che l’abbiamo ispirato, siamo senza parole, senza determinazione, senza azione, di fronte al disumano che ritorna.
In questo quadro di sbigottita afasia, rassegnata alla navigazione di piccolo cabotaggio, se non addirittura alla resa, questo viaggio del Papa ha fatto sapientemente uscire dalle pieghe del suo backoffice uno slancio del cuore che va lontano, oltre l’ostacolo: “Nel 2033, tutti a Gerusalemme!”. Un angolo di Gerusalemme, che rimarrà sicuramente testimone indistruttibile della sua vocazione di “città della pace”, sarà certamente la Sala della Cena del Signore. Luogo del dono del Corpo e del Sangue del Signore, che riapre l’alleanza della redenzione di Dio; luogo della promessa di comunione del Signore Risorto che nessun muro può fermare; luogo dell’irruzione dello Spirito che porta fuori da ogni angoscia di abbandono; luogo di commossa memoria della missione di redenzione e di amore, della quale siamo impensabilmente onorati. La condivisione del luogo in cui fu sigillata pace tra Dio e gli uomini, e la missione dell’amore evangelico fra i popoli, dovrà dare una scossa al tema cruciale dell’unità dei cristiani. Contro la condivisione degli eventi dei quali quel luogo è testimone i cristiani non possono trovare più alcun argomento per costruire Chiese separate in competizione o addirittura in conflitto fra loro. Nessuna delle loro formule e delle loro regole potrà apparire più capace di dividerli di quanto i sacri eventi della redenzione non appaiano capaci di unirli. L’evento simbolico di un ecumenismo che attinge direttamente alle origini dell’unità della Chiesa dovrà essere reale, facile e immediato per tutti, credenti e non credenti. Un segno forte. Dovrà far semplicemente scomparire molte delle parole con le quali le parti di un cristianesimo diviso hanno imparato a significare disprezzo, risentimento, persino odio, fra i cristiani stessi. Non sarà facile. Sarà addirittura più difficile della ricerca di interpretazioni teologicamente compatibili dei misteri della fede. Eppure, la riuscita di quel simbolo di convivialità, posto proprio nel cuore di Gerusalemme, da cui tutto ebbe inizio, non lascerà nulla come prima. Non per niente il Papa intende associarlo al Giubileo di tutti i Giubilei, ovvero alla remissione del debito di tutti i debiti, cioè quello che ferisce l’unità che il Signore ha comandato – e implorato – fra i suoi. Il Papa fa sul serio. Il 2033 si celebra simbolicamente il Giubileo bimillenario della Redenzione, non il semplice anniversario di erezione della parrocchia. L’ecumenismo delle buone maniere ha fatto del bene, sicuramente. Ma a quel punto non dovrà più bastare.
© RIPRODUZIONE RISERVATA






