Laura e Martina "libere"? La vittoria non è la morte ma alleviare il dolore
I casi di suicidio assistito di due donne hanno scosso l'opinione pubblica, con l'idea che morire sia il bene desiderabile. Possibile che il pensiero laico non abbia nulla da eccepire? Domande aperte

I due casi di suicidio assistito e una malintesa laicità C’è qualcosa di stonato nei discorsi intorno ai casi di suicidio assistito. La scorsa settimana la perugina Laura Santi, due giorni fa la triestina Martina Oppelli. Entrambe cinquantenni, entrambe sfinite dalla sclerosi multipla. Non si tratta di discutere le ragioni che le hanno portate alla scelta estrema, che vanno rispettate e sono state convincentemente illustrate dalle stesse interessate: si può discettare finché si vuole sul valore della sofferenza, che un credente – in maniera, per me non credente, del tutto inconcepibile – può “vivere nella fede” (come l’avvocato bresciano Emanuele Foresti, morto di Sla nelle stesse ore della giornalista perugina) o “offrire a Dio” (come papa Francesco nei suoi eroici ultimi giorni), ma possiamo ammettere che ci siano livelli di sofferenza insopportabili anche per un santo. Il punto è però un altro.
Il punto è nella retorica di maniera che ha accompagnato queste tristissime vicende in tanta parte dell’opinione pubblica che si autorappresenta come laica, aperta, progredita e progressista. Quel che stona è l’irriflessiva coazione a ripetere banalità, lo slittamento semantico, il fraintendimento e il capovolgimento di concetti e parole ripetuti macchinalmente con imperturbabile sicumera. Nel caso di Martina Oppelli le reazioni si sono concentrate sui ripetuti rifiuti che la donna si è vista opporre dalla sua Asl di riferimento, costringendola a cercare in Svizzera quel che in Italia le era negato: si tratta di una questione giuridico-politica che non è il caso qui di affrontare. Parliamo invece della singolare idea di “libertà” che aleggia intorno alla sua come alle altre storie simili. «Finalmente mi sento felice e libera», ha confidato la donna nell’ultima videochiamata con l’Associazione Luca Coscioni. Anche di Laura Santi si è detto che la sua è stata una scelta di libertà, che “adesso Laura è libera”. “Liberi fino alla fine” è il motto dell’Associazione Coscioni. Mah.
Certo si è trattato di una decisione sua (anche se magari impercettibilmente condizionata da un certo clamore ideologico): libera come può esserlo scegliere se morire oggi o domani, ma comunque morire; se continuare a soffrire o andarsene in modo dignitoso, ma comunque andarsene. Scegliere come fare qualche cosa che si è costretti a fare: una concezione un po’ limitativa della libertà. Quanto all’idea che adesso Laura e Martina siano libere... Se (supponiamo) un prigioniero, e per di più un prigioniero sottoposto a diuturne vessazioni, viene fatto uscire dalla cella e ipso facto soppresso, si può dire che da prigioniero che era è diventato libero? Un individuo è libero se può godere della sua libertà, e la condizione per poterne fruire è di esserci, di essere vivo. Quale libertà è quella che si consuma in un solo, irripetibile e definitivo atto coincidente con la dissoluzione dell’essere? Al di fuori dell’essere non si dà libertà o necessità, non si dà nulla – o tutt’al più, per chi crede, si dà un diverso stato in cui queste condizioni assumono un differente significato. Si è anche parlato, nel caso di Laura Santi, di “battaglia vinta”. Davvero? È un’ovvietà che pure, nel clima di surreale conformismo laicista di questi giorni, va sottolineata: la vera (al momento impossibile) vittoria sarebbe stata la guarigione; una mezza vittoria sarebbe stata trovare il modo di alleviare le sofferenze della malata, consentendole con adeguati trattamenti palliativi di arrivare dignitosamente all’esito naturale.
Invece, non potendo combattere la prima e non potendo o volendo combattere la seconda battaglia, si è convenuto di chiamare vittoria quella che è a tutti gli effetti – dal punto di vista medico, umano, per dirla alla Heidegger “ontico” – una sconfitta. Ed è poco ragionevole che sia stato proprio il fronte laico-laicista a intestarsi questa immaginaria vittoria, più coerente semmai con la prospettiva di chi, nutrito della fervida speranza in un aldilà, ne è confortato nel rassegnarsi a perdere un aldiquà non più umanamente tollerabile. Da chi invece, riguardo alle sorti oltremondane, ha meno certezze o non ne ha punto, non ci si dovrebbe attendere un più sollecito, strenuo impegno in difesa della vita terrena e della sua qualità? Certo tutte le buone cause necessitano di sostenitori, e anche la causa di poter scegliere il suicidio assistito – se non se ne può fare a meno, in mancanza di quegli strumenti per contrastare il dolore che la legge 219/2017, come ha ricordato su queste pagine Mario Marazziti, ha reso un «obbligo di Stato» – è legittimamente sostenibile; quel che a me personalmente riesce incomprensibile, psicologicamente incomprensibile, è come questa causa possa diventare la battaglia mobilitante-totalizzante di un movimento d’opinione che ha quale suo fine la fine, come se la preoccupazione fondamentale della vita fosse il modo di sbarazzarsene quando non è più desiderabile.
«Vi chiedo il buon senso di esseri umani», ha invocato Laura Santi nel videomessaggio pubblicato sul suo profilo Facebook all’indomani della morte e rivolto ai parlamentari impegnati nella discussione della legge sul fine vita. «Vi prego con tutto il cuore, occupatevi delle sofferenze dei malati più gravi». Ecco: occuparsene in che senso? Prodigandosi per alleviarne la sofferenza, o cancellando il sofferente? Non è una critica a Laura Santi, e alle altre nove persone che prima e dopo di lei, in Italia, hanno percorso la sua stessa via. Non avevano scelta, erano state lasciate sole nella loro ultima battaglia. Abbandonate da quanti, animati dalle migliori intenzioni, anziché impegnarsi nella battaglia per la vita, esauriscono le loro energie nella battaglia per la morte.
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