L'alba fragile della pace

A Gaza la politica è ormai un’arte da intrattenimento, e la spettacolarità per uno come Donald Trump è tutto. Ma un'intesa tardivamente imposta sopra una simile catasta di morti – quelli del 7 ottobre come quelli della Striscia – non è cosa su cui troppo festeggiare
October 14, 2025
L'alba fragile della pace
Il presidente Usa Trump durante la firma ufficiale della prima fase dell'accordo di cessate il fuoco a Gaza a Sharm el-Sheik
La tregua. La pace. La liberazione degli ultimi ostaggi. Il rilascio di millenovecento detenuti palestinesi. Le colonne di camion con gli aiuti alla popolazione stremata. La lunga teoria di Capi di Stato e di governo che si allinea a Sharm el-Sheik per una photo opportunity. I ragazzi di Gaza che ritrovano per un istante il sorriso. Trump alla Knesset, Netanyahu che lo proclama «migliore amico di ogni tempo di Israele» senza aver speso mezza parola sulla mattanza palestinese. Hamas che fuoriesce in armi dal dedalo di cunicoli e già riprende a modo suo il controllo della Striscia. Nel Big Bang della Pax Trumpiana c’è posto per tutto e il contrario di tutto. Per l’esultanza dei vincitori, il pianto delle vittime, l’orgoglio di un presidente che sulla chiusura della partita di Gaza ha puntato molto di più che sulla guerra fra Russia e Ucraina e un premier come quello israeliano che sulla partita mortale con Hamas ha sacrificato larga parte dell’appoggio del mondo intero. Ma i demiurghi della pace già spostano lo sguardo più in là, verso un orizzonte immaginato e immaginario, talmente denso di incognite da apparire indistinto e nebuloso. Colmarlo di propositi e di sogni è più facile. Gli Accordi di Abramo, Gaza pacificata, la prospettiva di una rinascita economica e civile della Striscia, se non la Mar-a-Gaza invocata da Trump che ha messo l’acquolina in bocca a tutte le monarchie del Golfo. In mezzo c’è un mare di incognite. A cominciare dall’assetto civile di Gaza. Davvero è opportuno affidarlo a Tony Blair con l’allure di un Mandato tanto simile a quello con cui Francia e Regno Unito si spartirono il Medio Oriente alla caduta dell’impero ottomano? E chi sarà in grado di disarmare Hamas? Chi farà il gendarme di una Striscia ancora largamente intatta nei suoi sotterranei? Che sarà dell’Anp di Abu Mazen, invitata dall’Egitto al tavolo di Sharm ma con l’incelabile aspetto di un commensale ammesso per decenza alla tavola delle potenze coloniali che decidono per lui? E con quale distorta immaginazione si può pensare che con settantamila morti dopo due anni di rappresaglia israeliana i palestinesi della Striscia riprendano a vivere in pace, senza odio, senza propositi di vendetta? E che ne sarà ora della tanto invocata formula Due popoli-Due Stati che gli accordi di Oslo del 1993 avevano prefigurato ricalcando quella dell’Onu del 1947 con la storica stretta di mano fra il presidente dell’Olp Yasser Arafat e il premier israeliano Yitzhak Rabin, anche se si trattava più di una promessa scritta sulla sabbia che di un vero e proprio accordo politico fra Israele e la controparte palestinese?
Netanyahu e la destra religiosa che lo tiene al laccio non la vogliono, gli emiri del Golfo e la Lega Araba la caldeggiano a parole, ma il solo riconoscimento dello Stato palestinese sancito a stragrande maggioranza dall’assemblea generale dell’Onu non basta. «Dopo tanti anni di guerre incessanti e pericoli senza fine, oggi il cielo è sereno, le armi tacciono, le sirene non suonano più e il sole sorge su una Terra Santa finalmente in pace. È l’alba storica di un nuovo Medio Oriente», ha vaticinato Donald Trump di fronte al Parlamento israeliano. Aggiungendo: «Devi essere un po’ più gentile ora che non sei più in guerra, Bibi». Ma “Bibi”, che in patria deve affrontare tre distinti processi per frode, corruzione e abuso d’ufficio e all’estero è tuttora passibile di arresto su mandato della Corte Penale Internazionale, non ha troppa voglia di sorridere. Alla cerimonia di ieri a Sharm el-Sheik non c’era. Ufficialmente, per prendere parte a una festa religiosa; di fatto per un interdetto piovutogli sul capo da Recep Tayyp Erdogan, che prima di atterrare sulla località del Mar Rosso sede del vertice aveva annunciato che sarebbe tornato in Turchia se il premier israeliano vi avesse preso parte. Le pressioni degli ultraortodossi a Tel Aviv hanno fatto il resto. Un bel paradosso, quello di Sharm: i due irriducibili nemici – i jihadisti radicali di Hamas che hanno cinicamente speculato sul sangue dei loro fratelli palestinesi e i loro avversari israeliani – non c’erano. Al loro posto, un parterre di figure e mezze figure – quelle europee in primis, senza contare Blair e il genero di Trump Jared Kushner, che hanno ruolo di faccendieri ‒ che alla fine delle ostilità non hanno dato grande contributo. Ma si sa, la politica è ormai un’arte da intrattenimento, e la spettacolarità per uno come Donald Trump è tutto. A volte può farti guadagnare perfino un Nobel per la Pace. Ma una pace, tardivamente imposta sopra una simile catasta di morti – quelli del 7 ottobre come quelli della Striscia – non è cosa su cui troppo festeggiare. Speriamo solo che regga. E che sia il primo passo per una pace duratura.

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