La riforma giudiziaria e una domanda da porsi: è necessaria e utile?
Le modifiche dovrebbero servire a migliorare la vita dei cittadini. Ma troppo spesso il clangore prodotto dallo scontro politico e mediatico lo fa dimenticare

Un approccio più razionale alle cose della giustizia, al posto di quello un po’ morboso e quasi isterico che si usa avere nel nostro Paese da oltre 30 anni, consentirebbe di vedere due aspetti della riforma costituzionale approvata in via definitiva dal Parlamento. Il primo è che la separazione delle carriere delle magistrature giudicante e requirente non è un colpo di Stato. Il secondo aspetto – strettamente correlato al primo – è che, a Costituzione vigente (anche così come modificata dalla riforma) non sottomette la funzione del pubblico ministero al potere esecutivo. Insomma, non è una bestemmia nel tempio della giurisdizione, tanto che un piccolo ma qualificato gruppo di rappresentanti della sinistra liberale ha già annunciato il proprio sì al referendum.
Detto questo, le riforme (a maggior ragione quando si mette mano alla Costituzione) dovrebbero servire a migliorare la vita dei cittadini, in questo caso a far funzionare meglio il servizio che lo Stato rende. Troppo spesso il clangore prodotto dallo scontro politico e mediatico fa dimenticare, infatti, che l’amministrazione della giustizia è un servizio a tutti i cittadini, non solo ai potenti, le cui vicende giudiziarie (per lo più penali) riempiono le cronache. E che la giustizia che riguarda da vicino la maggior parte dei cittadini è quella civile, settore in cui stiamo rischiando di perdere i fondi del Pnrr perché siamo indietro rispetto agli obiettivi di snellimento da raggiungere entro il prossimo giugno. Ma di questo pochi sembrano curarsi. Meglio magnificare la riforma che darà agli italiani «una giustizia finalmente giusta», come fanno il Governo e la sua maggioranza. Meglio chiamare alla resistenza referendaria contro la stessa riforma che «scardinerà gli equilibri costituzionali» e la separazione dei poteri, come fanno le opposizioni e l’Associazione nazionale magistrati.
In realtà ci sarebbe una sola domanda da porsi, cioè se davvero questa riforma sia necessaria e utile. Se sia necessaria, visto che ormai le funzioni requirenti e giudicanti dei magistrati sono distinte in maniera rigida, con un solo passaggio possibile in carriera da una all’altra entro 10 anni dalla prima assegnazione. Se sia utile, dato che i più grandi mali della giustizia italiana sono la lentezza dei processi, la farraginosità delle procedure, la carenza di personale e di sedi. Non si vede come questa riforma andrà a migliorare la situazione. Senza contare che la creazione di due Consigli superiori della magistratura moltiplicherà costi e consiglieri, così come l’istituzione dell’Alta Corte disciplinare, che è una parte fondamentale dell’impianto e dello spirito della cosiddetta riforma Nordio. Ma, per la verità, è anche l’aspetto più interessante della stessa, perché riprende e realizza una proposta più volte emersa negli anni, anche su iniziativa di autorevoli esponenti del centrosinistra o di giuristi della stessa area, al fine di superare il sistema di giustizia domestica del Csm, che in tanti casi è in effetti parsa fin troppo “domestica”. L’Alta Corte disciplinare sarebbe composta da 15 giudici, tre dei quali nominati dal presidente della Repubblica e tutti gli altri estratti a sorte tra i magistrati e da un elenco compilato dal Parlamento in seduta comune. Ed è proprio questo l’aspetto che più alimenta la contrarietà dei magistrati, almeno a sentire uno che la sa lunga come Antonio Di Pietro: il timore di perdere «il potere vero», ovvero quello di giudicarsi da soli sotto il profilo disciplinare. Certo, desta perplessità il fatto che l’Associazione magistrati (per la quale è già impropria la definizione di “sindacato” , perché la magistratura non è una categoria del pubblico impiego, bensì un ordine che esercita uno dei tre poteri dello Stato) promuova e guidi il Comitato per il no al referendum che si terrà per confermare o meno la riforma. Ma allo stesso modo desta perplessità la veemenza con cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha accolto il rifiuto del visto di legittimità al Ponte sullo Stretto da parte della Corte dei conti, brandendo la modifica alla Costituzione con toni che sembrano avvalorare la tesi di chi rimprovera al Governo un intento “vendicativo” nei confronti delle toghe.
Ci aspettano mesi di una campagna referendaria che si annuncia aspra come poche altre ma, quale che sia l’esito delle urne in primavera, c’è da augurarsi che si torni poi a discutere sul serio dei problemi, enormi, del sistema giustizia. Possibilmente in Parlamento. Possibilmente senza preclusioni ideologiche. Perché, malgrado il trionfalismo di bandiera e i festeggiamenti in strada con cui il centrodestra ha accolto il via libera alla riforma, non saranno le carriere separate a risolverli.
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