La ragazza che ha trasformato la sua fragilità in empatia
di Marco Erba
Il messaggio inatteso di una ex studentessa ricorda che ogni allievo è unico e irripetibile nella storia dell'umanità. E che il potenziale esiste sempre, anche se è nascosto

Il messaggio mi arriva mentre parcheggio davanti a casa. Spengo l’auto, prendo il telefono: in alto, sullo schermo, c’è una notifica. Apro distratto WhatsApp, un gesto automatico. Mi compare un numero sconosciuto. Provo un po’ di fastidio e un po’ di curiosità. Sarà uno spam? O forse, speriamo, una proposta stimolante? Apro, guardo, resto di stucco. Chi mi scrive sa che non ho il suo numero, così mi rivela subito il suo nome e cognome Un nome e cognome che ricordo benissimo, solo che quella è l’ultima persona al mondo che avrei immaginato potesse scrivermi. È un’ex allieva, mia studentessa alcuni anni fa. Una ragazza invisibile. Invisibile come capita lo siano diversi studenti che troviamo tra i banchi di scuola: chiusi, taciturni, che se ne stanno sulle loro. Me la rivedo seduta tra i compagni: una persona minuta, con un’espressione sul viso tra il timoroso e il corrucciato. Faticava a lasciarsi andare. Non interveniva mai durante le lezioni. A volte seguiva ogni parola, altre volte era come se si perdesse nei suoi pensieri. Sembrava in crisi, mi pareva che una perenne tristezza le aleggiasse intorno. In molte materie faceva una gran fatica. Dopo un biennio sempre all’inseguimento delle sufficienze, decise di cambiare indirizzo di studi e scuola. Non ne parlò con nessuno; non me lo disse di persona, anche perché c’era il Covid, eravamo in DAD. Semplicemente sparì nel nulla. Ero convinto di aver fallito con lei. Non ero riuscito ad agganciarla; le volte in cui avevo provato a parlarle si era chiusa: era stata gentile, ma mi aveva risposto a monosillabi, tenendomi a distanza. Non mi sembrava si fosse appassionata alle mie materie. Credevo di non aver lasciato alcun segno sulla sua vita: era passata e se n’era andata per la sua strada, senza che davvero ci fossimo incontrati. Per tutti questi motivi, il fatto che sia proprio lei a scrivermi mi compisce moltissimo. Leggo di getto, tutto d’un fiato. Poi rileggo e rileggo ancora. Resto di stucco, perché non è vero che con lei ho fallito. Rileggo una terza volta, gustando parola per parola. La commozione sale, gli occhi mi si riempiono di lacrime.
Quella ragazza, ormai una giovane donna, mi scrive così: «Ciao Prof! Sono…, non so se si ricorda di me. Lei è stato il mio insegnante in prima e seconda superiore. Le scrivo perché io mi ricordo di lei con molto affetto: è stato uno dei pochi professori comprensivi, che sembrava credere nel mio potenziale, nonostante i miei terribili voti. Alla fine del primo anno avevo chiuso con quattro debiti, mentre il secondo anno, durante il periodo del Covid, non erano previste bocciature, ma sono certa che altrimenti sarei stata bocciata. Ho approfittato di quel momento per cambiare scuola. Durante quei primi due anni delle superiori non mi sentivo più me stessa: ero sempre stata brava a scuola, ma con i cambiamenti dell'adolescenza la mia testa sembrava vagare altrove. Anche quando cercavo di impegnarmi al massimo, i risultati erano comunque pessimi. La verità è che nessuno mi aveva mai insegnato a studiare. Il mio cosiddetto "metodo" si basava soprattutto su sottolineature del libro e continue riletture, sperando che qualcosa mi rimanesse in testa. Forse questo bastava alle medie, ma non certo alle superiori. In quel periodo mi sentivo persa: pensavo di essere la peggiore in tutto e mi faceva male sentire come alcuni professori si rivolgevano a me, come se fossi svogliata o semplicemente poco portata per natura. Io però ricordo i suoi messaggi di incoraggiamento sui temi e sulle verifiche, la sua capacità di vedere oltre i miei voti e il modo in cui riusciva a spiegare trasmettendo una vera passione. Per tutto questo, grazie. L’adolescenza è un periodo delicatissimo e per me i primi due anni di superiori sono stati un inferno in cui non mi sentivo più me stessa. Gli ultimi tre anni di scuola, dopo il cambio, sono andati molto bene, mentre adesso sono al secondo anno del corso di infermieristica, che mi sta piacendo tantissimo. Ho già avuto le prime esperienze di contatto con i pazienti, e ognuno di loro mi lascia qualcosa di nuovo e prezioso. I miei voti sono buoni e, anche quando qualcosa non va benissimo, questo mi dà solo più forza per impegnarmi e non mi fa più sentire una fallita. La ringrazio per aver avuto un impatto positivo sulla mia vita. Grazie per aver reso quel periodo un po’ meno straziante!»
Mi sento inadeguato, forse anche un po’ in colpa: ciò che di meraviglioso scrive su di me è del tutto immeritato. Non ho fatto così tanto per lei: pensavo addirittura di non avere fatto niente. Eppure lei ha colto tutto questo. Il suo percorso è bellissimo, mi commuove: è riuscita a passare dalla crisi al dono di sé. Lei, incompresa da noi prof (me incluso, nonostante il suo messaggio bellissimo), dai suoi compagni e soprattutto da sé stessa, ha trasformato la sua fragilità in empatia. Ha avuto il coraggio di cambiare, e a volte per farlo serve un coraggio da leone. Si è messa in gioco, non è stata ferma, ha colto la sua battuta d’arresto come un’occasione per trovare la propria strada. Non solo: ha scelto una professione legata alla cura, un mestiere che richiede empatia, delicatezza, un’attenzione umana molto elevata; sicuramente non è un caso. Ci metto qualche minuto per risponderle, poi le scrivo: «Mi hai proprio commosso. Questo è uno dei messaggi più belli e inattesi di tutta la mia vita. Certo che mi ricordo di te. Sono felicissimo del tuo percorso. Io non penso di avere fatto tanto; tantissimo invece lo hai fatto tu. Se posso aver dato un contributo per farti scoprire il capolavoro che sei e il capolavoro che la tua vita può diventare, ne sono felicissimo. Quello che scrivi è stupendo. Ed è anche stupendo il campo che hai scelto. La vita ha senso se doniamo qualcosa agli altri, la felicità è tutta lì. E sono certo che tu lo farai alla grande e che la tua fragilità passata e magari presente diventerà capacità di sentire l'altro: una risorsa preziosa».
Ripenso a lungo, anche nei giorni successivi, al messaggio di questa ragazza. Penso a tutte le volte in cui da prof tendo a inquadrare i miei studenti dentro ai miei rigidi schemi: il simpatico, il taciturno, il brillante, lo svogliato, lo studioso, l’oppositivo. Penso alle volte in cui rischio di vederli come statue immobili: quello è così, quell’altro invece è fatto diversamente. Ma le persone non sono mai statue. La vita spezza le forme rigide in cui cerchiamo di inquadrarla. La realtà distrugge i nostri schemi soffocanti. Questa ragazza mi ricorda che ogni allievo è unico e irripetibile nella storia dell’umanità. Che ogni storia è sacra. Che il potenziale esiste sempre, anche quando è ben nascosto sotto strati molto spessi di insicurezza o superficialità. Quello che noi adulti possiamo fare è provare ad avere uno sguardo di fiducia, a coltivare un’attenzione personale, a dire parole gentili. È quello che fa Francesca nel quinto canto dell’Inferno di Dante. Quando incontra il poeta, questa figura strepitosa, dannata, ma di enorme spessore, gli rivolge parole di una delicatezza mirabile:
«O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso».
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso».
Nell’inferno, nella tempesta che punisce i lussuriosi, nella bufera che non si ferma mai, Francesca ha per quello sconosciuto parole di pace, di cura, di amicizia. Parole di una straordinaria potenza, parole che lasciano il segno. Parole che, forse, possiamo avere anche noi nei confronti delle persone che incontriamo ogni giorno, e soprattutto dei più giovani, in quella tempesta che a volte è la vita e che spesso è l’adolescenza.
Marco Erba è insegnante e scrittore
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