La nuova ossessione dei leader: il controllo dei dati e della comunicazione
di Diego Motta
La piega “orwelliana” di Trump e i rischi per l’opinione pubblica

L’ossessione del controllo sta contagiando i leader politici mondiali, mettendo a rischio la tenuta delle democrazie. Non c’è più Occidente che tenga, perché ormai la sfera d’influenza per chi comanda è soltanto una: quella legata al dominio dei dati e della comunicazione. Chi guida Stati e governi oggi non vuole più solo dettare l’agenda: vuole sapere in anticipo cosa si scriverà e come, anche in sfregio della verità.
Vuole poter piegare a proprio uso e consumo statistiche, report, ricerche. Qualche giorno fa, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha licenziato Erika McEntarfer, la direttrice del Bureau of Labour Statistics, agenzia che fotografa i dati sul mercato del lavoro Usa. Il motivo? «Ha pubblicato dati falsi» secondo il primo cittadino Usa. Meglio cambiare chi sta al vertice, per ottenere i numeri “giusti” sulla crescita delle opportunità occupazionali, quelli richiesti dalla Casa Bianca.
Lo stesso potrebbe accadere con il numero uno della Fed, Jerome Powell, già bollato come «troppo stupido» per guidare la Banca centrale americana, perché a dire dell’inquilino della Casa Bianca non ha ancora tagliato i tassi d’interesse. Qui lo spoil system, cioè la selezione degli uomini di governo su base fiduciaria (chi vince determina gli organigrammi, cambiando uomini e poltrone, in pratica) non c’entra nulla. Siamo oltre. Siamo all’addomesticamento sistematico dei dati ufficiali, all’uso capzioso delle cifre. La questione rientra nel ben più ampio capitolo del controllo della comunicazione come arma di distrazione di massa e orientamento del consenso.
Non si tratta soltanto di compiacere al sovrano di turno, ma di assecondare le traiettorie scelte per parlare all’opinione pubblica. Se la prova del voto è diventata una specie di consacrazione per chi ne esce vincitore, l’azione di governo deve sottostare da tempo alle logiche della campagna elettorale permanente. Ma non secondo i consigli dei vecchi guru della pubblicità e della televisione, bensì secondo la volontà stessa del leader, chiamato a seguire un percorso da cui non può assolutamente deragliare, pena l’indebolimento del messaggio e il disorientamento degli elettori.
Siamo davanti a una “piega orwelliana”, per citare l’espressione usata recentemente dagli analisti politici della Cnn? Di certo, si intuisce una deriva nella direzione del controllo a tutti i costi del lavoro di informazione, dai meccanismi ai contenuti diffusi. Un’ossessione, appunto, clamorosamente importata da Est a Ovest, sull’esempio di regimi autoritari e Paesi illiberali, come Cina e Russia, che si distinguono per propaganda e scarsa trasparenza. Neppure l’Europa e l’Italia sono immuni da questo virus. I numeri sono sempre più funzionali a un racconto di parte e questo accade su tutti i fronti caldi del dibattito, dagli investimenti per il riarmo ai flussi migratori, dalla produzione industriale al lavoro.
Le strategie dei governi appaiono chiare: nella comunicazione pubblica, oggi, è sempre più necessario anticipare l’avversario o il nemico, predisponendo per tempo un’offensiva in grado di disinnescare le risposte di chi è contro di te. Non c’è più tempo per analizzare una notizia che si viene sopraffatti da chiavi di lettura, commenti, provocazioni. Cosa può fare dunque l’opinione pubblica, per non finire nella nebbia dell’incertezza sui fatti e delle verità di comodo?
Nel suo discorso agli operatori della comunicazione, appena eletto, Papa Leone XIV ha invitato i giornalisti a «promuovere una comunicazione capace di farci uscire dalla “torre di Babele” in cui talvolta ci troviamo». Riconoscere il caos informativo in cui siamo immersi, e i tentativi di chi tiene le leve del potere di manipolare fatti e persone, può essere un buon primo passo in questa direzione. Gli anticorpi contro bramosie di dominio e controllo dei nostri dati (assicurato anche dall’alleanza dei governi con le big tech e i signori dell’intelligenza artificiale) vanno trovati al più presto. Per iniziare a risanare le nostre democrazie ma-late, non c’è bisogno dell’uomo forte che piega le istituzioni ai suoi voleri, ma di persone e voci libere e indipendenti.
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