La guerra a Gaza: perché oscurare i media danneggia tutti

Ad eccezione di pochi “embedded”, colleghi che hanno potuto mettere piede nella Striscia solo per poche ore, non c’è un solo giornalista straniero a Gaza. Perché non ci fanno entrare?
September 18, 2025
La guerra a Gaza: perché oscurare i media danneggia tutti
Fotogramma | Sono decine i giornalisti gazawi uccisi nella Striscia
«Ma se tu non vai, se non senti l’odore, anche di questo fiume, se tu non vai la gente non ti crederà mai più, non sei credibile. La gente capisce se tu ci sei lì o non ci sei, basta alle volte un aggettivo, basta qualcosa, basta un particolare che non avresti potuto avere se non eri lì in quel momento. E allora adagio adagio il nostro giornalismo si svilisce. Diventa una cosa altamente tecnica, specializzatissima ma senza cuore, senza anima». E senza verità. Le parole del compianto Ettore Mo, dal Corriere maestro tra gli inviati speciali, hanno molto a che fare con Gaza. Lui se ne è andato il 9 ottobre 2023, due giorni dopo il crimine dei crimini commesso da Hamas. Nel 1995, per dirne solo una, Mo arrivò con Milena Gabanelli a Grozny, quando nessuno voleva tra i piedi dei giornalisti nella capitale cecena. E i giornalisti erano anche ad Aleppo, a Sarajevo, nel Rwanda del genocidio, sotto ai Palazzi dei golpe, in mezzo a rivoluzioni e massacri, negli inaccessibili campi di prigionia libici o tra i campi di oppio con cui si finanziano i taleban a Kabul. Qualcuno riesce ogni tanto a intrufolarsi in Corea del Nord.
Ed è proprio quando «senti l’odore» che puoi fiutare la complessità. Anche se noi la chiamiamo “notizia”. Di Gaza abbiamo denunciato anche da queste pagine le persecuzioni di Hamas sui dissidenti, le torture ai giornalisti palestinesi non allineati, perché fossero da esempio per tutti. Abbiamo segnalato le minacce, pubblicato le accuse di Amnesty International all’organizzazione armata che non fa certo della libertà di stampa la sua bandiera, intervistato leader palestinesi che insultano i fondamentalisti.
Ad eccezione di pochi “embedded”, nostri colleghi che hanno potuto mettere piede nella Striscia per pochi metri e per poche ore sotto la supervisione delle autorità militari israeliane, non c’è un solo giornalista straniero che possa entrare a Gaza. Nei primi mesi di guerra, davanti alle reiterate richieste della stampa internazionale, da Tel Aviv rispondevano che non potevano mandarci allo sbaraglio, rischiando di finire magari sotto al tiro incrociato o sequestrati dagli islamisti. Se questa fosse stata l’ammirevole preoccupazione di fondo, non si spiega perché i giornalisti abbiano potuto esserci, certo pagando un prezzo in vite perdute e colleghi tenuti in ostaggio, in teatri come la Siria, l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia (dove peraltro fu sequestrato insieme a due colleghi un altro dei maestri, l’inviato di Avvenire Claudio Monici). Eppure i giornalisti non hanno mai smesso di raccontare, dal vivo, le sabbie mobili di Tripoli.
Più di recente, ad ogni istanza di ingresso a Gaza, viene risposto: «Perché non chiedete all’Egitto?». Che da una democrazia si levino voci che suggeriscano di rivolgersi a un regime, è di per sé una contraddizione. Forse anche un sintomo. E a poco vale la risposta più banale: l’Egitto controlla il valico meridionale di Rafah in accordo con le autorità israeliane e non intende fare scelte che possano irritare il vicino con la Stella di David.
Nei giorni scorsi sui social network sono apparsi i resoconti di alcuni “influencer” israeliani brevemente portati a Gaza per mostrare come la fame sia in realtà un prodotto di Hamas e di come addirittura nella Striscia vengano inaugurati nuovi ristoranti, café, e alcuni supermercati trabocchino di mercanzia (importata tramite grossisti israeliani autorizzati). Se le cose stanno diffusamente così, allora perché non farci entrare? In che modo centinaia di giornalisti da tutto il mondo avrebbero potuto oscurare e falsificare contro Israele, congiurando tutti di comune accordo e senza spifferi? E l’onnipresente intelligence non avrebbe potuto smascherare l’inganno esponendoci al tribunale delle opinioni pubbliche? In altre parole, non sarebbe stata proprio la pluralità delle voci la migliore garanzia per un dibattito che non prestasse il fianco all’inevitabile polarizzazione?
Non è buon segno dimenticare la lezione e l’avvertenza di Joseph Pulitzer, a cui si deve la nascita della prima scuola di giornalismo e il riconoscimento annuale nel suo nome: «Democrazia e giornalismo libero moriranno o progrediranno insieme». E tenere i cronisti da questa parte del muro non fa del male solo all’informazione.

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